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  • Immagine del redattoreEdoardo Rosati

«Dove abita la coscienza?» La scienza apre nuovi orizzonti

Sant’Agostino ebbe a dire: «Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più».

La frase sembra funzionare perfettamente anche (e soprattutto) se l’oggetto in questione è la coscienza. La Madre di tutti i misteri. Una dimensione che pare destinata a rimanere fuori della portata della comunità scientifica. E sulla quale, tuttavia, ancora ci si accapiglia alla ricerca di uno straccio di verità.


Di recente, per esempio, un seminario di due giorni organizzato dal Marist College, un campus accademico incastonato tra New York City e la città di Albany, ha rilanciato l’idea del panpsichismo: in una potente sintesi, vuol dire che la consapevolezza risiede nel tessuto medesimo dell’universo. Ogni singola particella di materia, persino un elettrone, può vantare primitivi brandelli di cognizione. Sensazioni grezze e soggettive. L’intero cosmo è soffuso di sensibilità. La coscienza sarebbe, insomma, un dato reale, che non dipende da alcun substrato particolare e alberga in ogni cosa. Tutta la materia è intrinsecamente cosciente.


Di contro, si erge il fronte dell’emergentismo. Spieghiamolo così: un singolo neurone non è affatto “conscio”, ma grazie alle mirabili performance collettive di circa 86 miliardi di cellule nervose e alle loro sterminate interconnessioni, il cervello (interfacciato anche con le restanti cellule corporee, verrebbe da dire) diviene cosciente. In definitiva, la consapevolezza che il soggetto ha di sé e del mondo esteriore è una proprietà che “emerge” dalla complessità del cervello. Ciò che serve è la materia fisica: dal suo assemblaggio corretto scaturirà la coscienza.

Pare che un terzo dei pensatori accademici rifiuti tale posizione, come si usa dire, “fisicalista” e tenda verso una visione alternativa, come quella offerta dal seducente panpsichismo. Ma chi osteggia quest’ultima posizione ribatte a sua volta che non avanzi ipotesi verificabili e che sia alla fin fine una facile scappatoia per aggirare il macigno del dilemma. Vero è anche però che per il panpsichismo la coscienza non è un’entità eterea, spirituale: è invece un costrutto essenziale, l’hardware dell’universo. Il che ci rende elementi costitutivi di un sistema fisico.


La Via Lattea. (Foto di WikiImages da Pixabay).


La corteccia cerebrale viene considerata la struttura più evoluta e complessa tra tutti i sistemi viventi. Risulta organizzata in diversi strati cellulari, che hanno spessore ed estensione differenti nelle varie aree cerebrali, variando altresì per densità e tipologia di cellule. Ogni regione della corteccia cerebrale comunica con altre zone del cervello per mezzo di un ginepraio di connessioni, afferenti ed efferenti, ossia: vie che dislocano il messaggio neurale dal sistema nervoso centrale verso la periferia e altre che da qui vengono convogliate ai “piani alti”. Ma… in che modo la coscienza, il sapore di ciò che siamo, emerga da questa popolazione di cellule (benché organizzate in un sofisticato e intricatissimo network) è ancora un enigma imperioso. La girandola dei pensieri e i desideri più riposti, la percezione intima delle personali esperienze, le angosce e le passioni, la materia primordiale che ci definisce come esseri umani… Ma davvero sono il risultato finale di un “semplice” fenomeno bio-elettrico, qual è la trasmissione degli impulsi nervosi?


I più coltivano una visione “materialista” e dichiarano con fermezza: sì, è alla complessità della corteccia cerebrale che dobbiamo quella funzione superiore che chiamiamo coscienza, la nozione di noi stessi e del nostro “esserci” nel mondo. I neuroni, grazie ai propri prolungamenti cellulari e agli illimitati legami che stringono con le altre cellule neurali (vicine o nell’emisfero cerebrale opposto) disegnano ragnatele biologiche capaci di assumere un numero stupefacente di configurazioni. Tant’è che un trauma o un accidente cerebrovascolare che metta fuori uso questi schemi neurali finisce per produrre un effetto visibile sulla personalità.


I fisicalisti, insomma, asseriscono che l’autoconsapevolezza umana è figlia della corteccia cerebrale. Ma ci piace rincarare l’interrogativo: siamo così certi che le cose funzionino davvero così? E allora perché, se la coscienza è la diretta espressione dell’attività chimica ed elettrica della corteccia cerebrale, il filosofo britannico Colin McGinn afferma: «Più guardiamo il cervello, tanto meno sembra un dispositivo per la creazione della coscienza»? E gli fa eco Steven Weinberg, vincitore del Premio Nobel per la Fisica nel 1979, quando riconosce, nel suo libro Dreams of a Final Theory, che «c’è un problema con la coscienza, perché la sua esistenza non sembra derivabile da leggi fisiche. Come possono i processi fisici nel cervello generare l’esperienza soggettiva, l’interiorità del pensiero e della percezione?».


«Non c’è niente che conosciamo in modo più diretto della coscienza, ma è straordinariamente difficile conciliarla con tutto il resto delle nostre conoscenze. Com’è possibile che sorga dai processi neurali del cervello?», si chiede David John Chalmers, filosofo australiano, nel suo libro The Puzzle ofConscious Experience.


Ritenere che la coscienza si riduca all’anatomia e alla fisiologia, è una concezione meccanicistica di noi stessi generata dalla fisica dell’Ottocento. Diversi ricercatori hanno ipotizzato, allora, che possa essere la moderna meccanica quantistica a sfornare una risposta: una delle più note teorie della “coscienza quantistica” è stata avanzata dall’insigne matematico Roger Penrose, a braccetto col medico anestesista statunitense Stuart Hamerhoff. In buona sostanza, si dice che i neuroni contengono particolari strutture, i microtubuli, che oltre a costituire lo “scheletro” della cellula ospitano intricatissimi processi quantistici di calcolo e comunicazione intracellulare, cruciali per le funzioni cognitive superiori. Sarebbe proprio l’attività dei microtubuli, e in particolare dei fenomeni vibrazionali di tipo quantistico (e quindi probabilistico) che hanno luogo nel loro interno, a far venire a galla la coscienza.


Frotte di scienziati si sono scatenate negli ultimi anni in un fiorire di teorie sulla coscienza che cavalcano proprio questi fronti della fisica, dopo aver abbattuto il dogma che una materia “calda e umida” come il cervello non possa essere sede di fenomeni quantistici. Ma gli interrogativi fioccano.


Suggestivo è il caso, negli anni Ottanta, di uno studente all’Università britannica di Sheffield. Studiava per laurearsi in Matematica e il suo quoziente intellettivo toccava quota 126 (il punteggio medio è 100). Piccolo dettaglio: il ragazzo aveva la testa leggermente più ampia del normale. All’origine di questo aumento di volume del cranio vi era un idrocefalo: è quella condizione neurologica in cui si ha un abnorme accumulo di liquido cerebrospinale nelle fisiologiche cavità (i ventricoli) scavate nello spessore dell’encefalo.

Gli spazi si ampliano per la quantità eccessiva di fluido; s’impenna la pressione all’interno del cranio e la corteccia si assottiglia, schiacciata com’è dalla compressione meccanica. I ventricoli cerebrali, insomma, sono troppo pieni di “acqua” e si dilatano pressando parte del tessuto cerebrale.

Le immagini radiologiche svelarono che lo strato corticale dello studente era diminuito paurosamente: i normali 4,5 centimetri di spessore si erano ridotti a 1! Tant’è che il neurologo John Lorber, che aveva studiato il caso, sentenziò: «La corteccia cerebrale fa molto meno cose di quel che la gente immagina». Ci si chiese: come può un individuo con uno strato corticale così severamente compromesso interfacciarsi col mondo, continuando a socializzare con gli altri e persino ottenendo risultati ragguardevoli negli studi universitari?


Lascia interdetti anche il caso segnalato nel 2007 dal neurologo Lionel Feuillet, della Université de la Méditerranée (Marsiglia), sulla rivista medica The Lancet: un quarantaquattrenne francese, impiegato, sposato e padre di due figli, ha ammutolito i medici rivelando alla TAC e alla Risonanza magnetica una condizione di idrocefalia senza precedenti. Praticamente un massiccio ingrandimento delle cavità encefaliche, con una spaventosa massa liquida che pressava la corteccia cerebrale, ormai ridotta a un’esile membranella spessa quanto un foglio di carta e “spalmata” sulla scatola cranica. L’uomo possedeva ormai soltanto il 10% dell’abituale massa cerebrale. Eppure conduceva una vita senza deficit fisici o psichici, e anche il QI risultava appena poco al di sotto della media (75).


I pensieri, le memorie, le emozioni, la straordinaria ricchezza delle sensazioni legate all’essere quello che siamo… Per la percezione di tutto ciò, attenendoci alle verità attuali, dovremmo disporre di un sostanziale «zoccolo duro» di corteccia cerebrale, di un congruo impianto elettrico di neuroni e connessioni sinaptiche, di fili e interruttori. Il dogma scientifico per eccellenza, in altre parole, è che la coscienza sia qualcosa che abitanella nostra testa. Ma nei pazienti citati il cervello semplicemente… non c’era.

La filosofa norvegese Hedda Hassel Mørch, alfiere del panpsichismo, chiosa la faccenda con una illuminante riflessione: «Se tu conoscessi ogni minimo dettaglio dei miei processi cerebrali, non sapresti ancora che cosa vuol dire essere me».


Foto di Gerd Altmann da Pixabay.

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