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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

La meditazione cambia la vita

Aggiornamento: 25 lug 2022

Sedersi in silenzio. Immobili. Ogni giorno. È la pratica che porta la felicità


C'è una grande discussione nell'ambiente dello yoga a proposito della meditazione. Si è appena svolto on line il congresso della Federazione Mediterranea Yoga (FMY) organizzato e presieduto da Wanda Vanni in cui si è parlato proprio degli ultimi tre stadi del percorso yoga, che sono concentrazione, meditazione ed enstasi (dharana, dyana e samadhi).


Della parola «meditazione» ci si riempie spesso la bocca. Ma cosa significa? La risposta non è univoca, perché dipende dal contesto spirituale in cui la collochiamo. In un contesto cristiano-cattolico per esempio, sarà il pensare o il riflettere su qualche scrittura; in un contesto buddhista potrebbe essere la recita di un mantra o una pratica di visualizzazione o il silenzio consapevole; nell'ambito dello yoga, secondo quanto indicato da Patanjali in «Yogasutra», è uno stato dell'essere, cioè il momento in cui si rivolge l'attenzione verso l'interno (e questo è indotto da asana e pranayama) e, stabilizzata così la coscienza, si entra spontaneamente in uno stato di pienezza consapevole. Nello yoga, la meditazione non è una pratica, insomma, ma uno stato.


Eppure si sente parlare della pratica di meditazione anche in questa via spirituale, perché in effetti il termine italiano (ma in tutte le lingue è uguale) confonde: non si è trovata una parola che separasse lo stato mentale dal gesto. Buddha chiamava la pratica meditativa «bhavana», che significa «coltivare, mettere le mani nell'humus». Diremmo, in questo senso, nella parte più profonda di noi. Insomma, possiamo dire che c'è meditazione e meditazione.


Qui vorrei soffermarmi sull'utilità o meno della pratica meditativa, cioè quella che si intende come il restare seduti immobili nell'osservazione del respiro o nella recitazione silenziosa del mantra «Om». Questa non è la meditazione di cui parla Patanjali in «Yogasutra», ma è una pratica imprescindibile in un percorso di realizzazione del Sé e non è sostituibile con ore e ore di asana o di pranayama. Senza il sedersi immobili non c'è una reale progressione umana, psicologica, introspettiva e spirituale.

Parlo per la mia esperienza (modestissima) che ha presentato dei momenti di criticità tali che ha messo alla prova quello che dico.


Vengo dal buddhismo, sono eretico e agnostico, ma mi considero buddhista. Ho preso rifugio nel Buddha, nel sangha e nel dharma, e quella cerimonia ha rappresentato un momento di svolta reale nella mia vita. Poco dopo ho incontrato lo yoga che non è stata una deviazione, ma un approfondimento dello stesso percorso che, come sanno i ricercatori, non ha nome né appartenenza.

In quel periodo stavo anche seguendo una terapia psicoanalitica che stava dando buoni frutti. A un certo punto - era settembre - ho iniziato a sedermi in meditazione ogni giorno: solo 15-20 minuti, ma tutti i giorni. Ogniqualvolta tornavo dal terapista, mi accorgevo che, semplicemente parlando, capivo di me cose di cui non mi ero mai reso conto. Nel mese di marzo il terapista mi ha congedato per sempre.


Quello è stato il primo frutto della meditazione e cioè la possibilità di vedere (vidya in sanscrito è la conoscenza ed è il contrario di avidya, la nescenza, fonte di sofferenza) dentro di me. Non ho più smesso. La mia pratica associa asana, pranayama e questo stato di immobilità che è un restare a osservare. Non ho visioni - rifuggo questa inutile perdita di tempo - ma bastano pochissimi secondi o frazioni di secondi in cui il pensiero si sospende per restituire una chiarezza mentale straordinaria.


Ma non è solo quello: l'immobilità è la parte più importante della pratica. Sedersi immobili ogni giorno fa la differenza perché ci costringe a fermarci, a legare il pensiero e i gesti al luogo in cui il corpo si arresta.



Devo dire che - a parte negli ambiti ispirati a Yogananda - nel mondo dello yoga ho talvolta riscontrato scetticismo. Poi al convegno della Federazione mediterranea ha parlato Carlos Fiel, insegnante di yoga e di meditazione vipassana oltre che medico, e ha pronunciato parole pesanti come pietre. Ha parlato del «potere di non agire» come un modo di agire: «L'iperattività alimenta la nostra paura del vuoto, della separazione, del rifiuto, della solitudine», ha detto. «Il corpo lo vive come uno stress. Solo l'immobilità è in grado di riparare questi danni». E spiega: «La base principale di tutte le meditazioni è coltivare la presenza del "sé"».

Il medico Fiel vi spiegherebbe anche dell'azione del nervo vago, del ruolo del sistema simpatico e parasimpatico, ma soprattutto vi direbbe che «c'è una grande attività cerebrale associata al silenzio corporeo». Quando ci si siede a “meditare” i pensieri arrivano, si mettono in gioco «onde di energie che provocano risonanze in determinate regione del cervello». Questo scoraggia alcuni, ma smettere è l'unica azione da non fare.


Sedersi a meditare non è cosa semplice, soprattutto se si rincorrono obiettivi illusori. Meditare è una scommessa: la scommessa di arrivare alla meditazione (nel senso patanjaliano del termine). Potrebbe non accadere mai o solo per qualche istante, ma quell'istante cambierà lo stato di coscienza (ascoltate le parole della professoressa Donatella Caramia nei Podcast di Rispirazioni, ndr).


Quindi i distinguo servono a poco. Serve sedersi immobili e silenziosi ogni giorno. Non per sbandierarlo al mondo o per sentirsi migliori, perché non è questo il focus. Non si diventa “migliori”, né “calmi e zen: se si è fuoco, questo fuoco continuerà a bruciare, ma scalderà e illuminerà anche. E piano piano si scoprirà una parte di noi che non immaginavamo esistere. L'unico obiettivo, insomma, è la ricerca. Che non ha obiettivi.


Sempre Fiel ci ricorda un koan zen che riassume il suo (e mi perdoni) anche il mio pensiero: «Seduto in silenzio, senza fare niente, arriva la primavera e l'erba cresce da sola». Non c'è altro da aggiungere.



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