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  • Immagine del redattoreEdoardo Rosati

AI, teniamoci stretta l’intelligenza… naturale!

La “magica” imprevedibilità non ce l'ha nessun computer


Come potenti maree, periodicamente ci sono temi che invadono (e galvanizzano) la coscienza. Esempio emblematico e pervasivo: la ChatGPT, l’innovativo strumento basato sull'intelligenza artificiale che interagisce «in modo conversazionale», addestrato a seguire un'istruzione e a fornire una risposta circostanziata.


Nell’attesa di conoscere che piega prenderà la faccenda in Italia, l’immaginazione - dinanzi all’avvento di questi modelli evoluti specializzati nel dialogo uomo-macchina - corre ineludibilmente all’universo di Terminator, in cui (peripezie di Schwarzy-cyborg a parte) Skynet, un sistema informatico altamente avanzato dotato di AI, diventa consapevole di sé e comincia a sentirsi insidiato dall'umanità. Per inciso, Sam Altman, lo stesso fondatore di OpenAI, l'organizzazione no profit che ha generato ChatGPT, ha evocato in un post scenari apocalittici analoghi: «Una AGI (acronimo di Intelligenza Artificiale Generale, N.d.A.) super intelligente ma disalllineata potrebbe causare gravi danni al mondo».


Ma a stimolare la riflessione in merito, prima ancora dei disastrosi canovacci narrati dal ciclo di Terminator, c’è un libro. Lo ha scritto Olof Johannesson, che è un nom de plume: cela nientemeno che lo scienziato svedese Hannes Olof Gösta Alfvén (1908-1995), che ricevette il Premio Nobel per la Fisica nel 1970 per gli studi sui plasmi.

Una figura abbastanza controversa, un anticonformista (contestava la teoria del Big Bang  sull’origine dell’universo) che avrebbe fatto arricciare il naso a tanti suoi colleghi più convenzionali. Ebbene, il nostro uomo di scienza pubblicò nel 1966 una singolare opera di science fiction, che tre anni dopo circolò con un titolo a dir poco allegorico: The End of Man? (la fine dell'uomo?).


È una specie di testo di storia… del futuro, in cui un progredito computer rappresenta la forma prevalente di intelligenza sul nostro pianeta in una dimensione temporale prossima a venire. Una sorta di resoconto storico - il bello è che non si riesce a cogliere pienamente se il narratore è umano o un software - che descrive dettagliatamente la società delle macchine (in grado di ragionare con logiche articolate), il loro iniziale sviluppo, poi l’integrazione nel tessuto sociale dell’uomo e quindi la supremazia finale.

I computer vengono gradualmente introdotti nella vita di tutti giorni prima come meri calcolatori e poi finiscono per tracimare prendendo tutte le decisioni importanti. E l’uomo? In pratica, la mission del genere umano si riduce a un’attività soltanto: mantenere in vita i computer. Che hanno imparato a replicarsi, a costruire e a programmare altre macchine, e ad autogovernarsi. Una vera e propria Società Telematica-Informatica libera da quella distruttiva brama di potere che ammorba il cuore delle persone.


Già: nel racconto si dice che il consorzio umano pre-computer viveva nella confusione, in un coacervo di problemi organizzativi che il cervello, nella sua finitezza, non era in grado di gestire, per colpa soprattutto di quel desiderio smanioso che non pare placarsi nemmeno se soddisfatto: l’avidità. E così i computer, che sono essenzialmente problem solver, risolutori di problemi, hanno preso il sopravvento, impugnando il controllo assoluto grazie alla loro peculiare intelligenza, esente da condizionamenti logici ed emotivi. E consentendo all'uomo di sopravvivere. Ovvero: come il genere umano ha preservato cani e cavalli che lo hanno servito fin dai primordi aiutandolo a scrivere la Storia, così i Computer continuano a…“tenersi” per comodità l’animale-uomo dopo che egli li ha resi onnipotenti.


Insomma, la risposta all'annosa domanda «Perché siamo in questo mondo?» è bell’e servita: l’Uomo è l’anello di congiunzione tra la Scimmia e la Macchina. Al punto che se venisse improvvisamente meno il Dio-Computer, la civiltà intera si ritroverebbe sul ciglio del collasso globale.


Una narrazione, quella del Premio Nobel, che sa inevitabilmente di monito. Lungi dal rifiutare i successi benemeriti della tecnologia, è indubbio come queste “menti artificiali” incarnino alla fin fine il sempiterno sogno dell'uomo di infondere la vita nella materia grezza, bruta (già Mary Shelley, nel 1818, ce lo aveva magistralmente ribadito con il suo immenso Frankenstein) e di creare entità capaci di ovviare alle limitatezze della fisiologia umana. Di accrescere a dismisura le performance psicofisiche. Di scongiurare il declino della carne. Di sfuggire, in ultima analisi, alla mortalità. Orizzonti scintillanti che rischiano troppo spesso di essere appannaggio delle ideologie e di chi detiene il potere.

Se ci si dimentica che l'intelligenza autentica non è la capacità iperefficiente di svolgere una mansione, ma la sapienza di agire con un tocco di “magica” imprevedibilità, estraneo a qualsiasi calcolo e supposizione, allora sì che un domani la posta in gioco saremo noi stessi.


Foto di Gerd Altmann/Pixabay.


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