Riccardo Serventi Longhi
Imbocca il lupo! (E non è un errore...)
Le storie, le leggende o le antiche metafore, in qualunque parte del mondo pongano le loro radici, per una legge silenziosa, forse, che regola una coscienza universale, fanno rimbalzare il loro significato sulle impronte di culture diverse in giro per il mondo, fino a retrocedere nel passato, o forse provengono da lì, quasi a confermare che il tempo non esiste. Che tutto avviene in un presente che solo la nostra mente condizionata dalla scansione temporale non riesce a cogliere.
Tutto è presente. Scorre solo in ciò che in noi decodifica un prima e un poi. Ma non è così, dicono i grandi maestri della tradizione indovedica (e non solo), e il problema sta tutto lì: dove siamo noi?
Se siamo nel poi, viviamo di illusioni. Patanjali chiama questi pensieri vikalpa, che facilmente traducono tale condizione (il poi) in preoccupazione o ansia. Fantastichiamo intravedendo aspettative fauste o delusioni inesistenti. Se indugiamo nel passato, invece (smrti, la memoria sempre per l’autore del libro Yogasutra), ci abbraccia una sensazione di malinconica mancanza, di difficoltà ad essere qui. Proprio perché rimaniamo (mentalmente, emotivamente) laddove non siamo più, dove non c’è più “qualcosa” che vorremmo trattenere; una persona? Un’età? Un’esperienza?
Uno di questi racconti, molto famoso, proveniente dalla tradizione dei nativi americani, si articola sotto forma di una lezione di saggezza da parte di un anziano nei confronti del suo nipotino. Il primo spiega al secondo che dentro di lui, come nel cuore di tutti gli uomini, si scatena ogni giorno una terribile battaglia fra due lupi: uno nero e uno bianco. Questi due animali simboleggiano due forze opposte. Il primo è il male, dice l’anziano al nipote. È l’ira, è l’invidia, l’avarizia, l’arroganza e persino la tristezza il senso d’inferiorità e l’ego. L’altro lupo, l’altra forza, il bianco, è la bontà, l’allegria, l’amore, la speranza, la serenità, l’umiltà, la compassione e ovviamente la pace. Quando il piccolo chiede al nonno quale lupo vincerà questa battaglia, la risposta è: quello che nutrirai.
Quando lessi questa storia per la prima volta, lo yoga faceva già parte della mia vita. Come un algoritmo che recupera informazioni dai cookies delle mie preferenze subconsce, l’hardware che governa l’esistenza del mio cervello, cominciò a eseguire una scansione dei file, delle cartelle dove riponiamo le esperienze, alla ricerca della porta da cui vibrasse un suono in sintonia con ciò che stavo osservando fra le righe che scorrevo, e che mi riportasse a qualcosa che vivevo nell’esperienza che abbraccio nella vita e che condivido negli insegnamenti dei grandi maestri.
A distanza di un emisfero, dall’altra parte della Terra rispetto alle vallate sconfinate degli Stati Uniti, in quella che doveva essere la meta di Cristoforo Colombo, ma che rimase invece là dov’era avendone incontrata un’altra prima, ovvero l’India, 1.500/2.000 anni prima (non “invrittiamoci” con le date perché la terra del Mahabaratha non prevede alcuna datazione certa quasi di nulla ringraziando il cielo per le nostre menti precisine precisine), il rishi già citato Patanjali scriveva qualcosa molto simile.
Nel suo testo, nel primo pada (capitolo) al sutra 33 (aforisma) dice «maitrî-karunâ-muditopeksânâm sukha-duhkha-punyâpunya-visayânâm bhâvanâtas citta-prasâdanam», che suona più o meno così «l’attività mentale si acquieta coltivando amicizia, simpatia, compassione, disponibilità incondizionata, gioia per la gioia degli altri, equanimità, imperturbabilità rispetto al piacere o al suo contrario».
Nel capitolo successivo, in apertura, al terzo aforisma, ci dice che ci sono cinque cause che alimentano la nostra sofferenza: avidya, asmita, raga, dvesha e abinvesha. Ossia, stiamo male a causa dell’incapacità di vedere le cose così come sono (avidya), perché il filtro soggettivo del nostro “vedere” non offre verità ultime, ma solo opinioni momentanee e soggette a cambiamento continuo. Perché siamo incollati all’esperienza sensoriale all’identificazione in ciò che sta lentamente scomparendo, ovvero la nostra vita fisica, piuttosto che alla nostra realtà ultima. L’immortalità. L’Anima.
Nella Bhagavad Gita Krishna esorta Arjuna: «Non c'è mai stato un tempo in cui non esistemmo né mai ci sarà un tempo in cui cesseremo di esistere». Siamo eterni, ma spiritualmente, ignoranti. Ignoriamo la nostra essenza perdendoci in attaccamenti illusori.
Stiamo male perché osserviamo tutto con gli occhiali della separazione (asmita), del confine da non valicare o da difendere, del «mio-tuo». Gli occhiali dell’ottener ragione. Delle caste mentali, dei ruoli, dei numeri, delle opinioni, dei titoli dei voti e degli estratti conto.
Stiamo male perché desideriamo ciò che ci piace (raga) così tanto che una volta ottenuto non lo desideriamo più, e non vogliamo nulla che possa essere contrario al nostro gradimento (dvesha). Non tolleriamo difficoltà o disagi, malattie o pioggia. E’ troppo caldo, è troppo freddo, è troppo o è troppo poco.
Ma soprattutto temiamo la fine. La fine della vita (abinvesha), certo, ne abbiamo una paura che nemmeno riusciamo a descrivere, per questo l’evento più importante della nostra esistenza, che asmita (il senso dell’io di cui sopra) detesta, viene completamente sorvolato nei discorsi. Addirittura si fanno gesti scaramantici solo a nominarla nostra sorella morte. Come servisse ad allontanarla. Ma la fine che temiamo, non è solo quella della nostra presenza fisica qui, ma qualunque fine non è ben accetta. La fine di una relazione, di un lavoro, di una dinamica (a volte non vogliamo nemmeno che termini qualcosa che in realtà ci sta facendo soffrire) di niente. Radicati nelle abitudini, vorremmo che tutto durasse per sempre, opponendoci al destino dell’impermanenza, invece che scorrerci insieme.
Ma tornando alla saggezza dell’anziano pellerossa, se osserviamo questi punti di vista germogliati fra le vette himalayane, preziosi come le nostre stelle alpine e, come loro, difficilmente osservabili perché sfuggono senza la profonda e necessaria attenzione, è esattamente ciò che da secoli permea la cultura yogica a 15.000 chilometri di distanza. Quale lupo stiamo nutrendo in noi, ce ne accorgiamo? Perché sarà quello che crescerà cuccioli simili a se stesso. Il lupo bianco? Ossia amicizia, pace interiore, amore, gioia, gioia per la gioia degli altri, distacco dal coinvolgimento eccessivo? Abbiamo un sorriso che può prendere il posto del mugugno di insoddisfazione, a prescindere da tutto, dai risultati, dalle aspettative, da ciò che ci circonda, dagli eventi esterni, ma solo per la gratitudine di essere qui, per esempio anche solo per poter leggere queste righe ora, respirando quieti? Oppure vive in noi l’altro lupo sotto forma di sottile perenne critica, giudizio, facilità nel pettegolezzo, o nel continuo cercare di soddisfare necessità materialistiche nel desiderare qualunque cosa ci passi davanti, anche senza accorgercene a volte, o nel timore di perdere ciò che abbiamo? Quanti paletti sta mettendo il nostro ego per essere appagato? Questo sì, questo no…
In apparenza tutto questo potrebbe sembrare ovvio, ma non è così se dalla notte dei tempi, dalla legenda popolare al profondo studio di sé, le risposte alle domande “alte” provengono dall’esperienza personale e mai preconfezionate. Non è qualcosa di esterno a rendere fertile il terreno che coltiviamo. Forse la felicità è proprio osservare quanta fatica facciamo a trattenerci laddove si creano resistenze piuttosto che punti di unione. Innaffiamo atteggiamenti dettati dalla paura, di qualunque genere si tratti, o abbracciamo l’esistenza come un amico o un’amica che accogliamo così com’è? Guardiamo bene nel nostro piatto cosa mettiamo oggi come pietanza e… imbocca tu il lupo che scegli!
