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  • Immagine del redattoreFranco Acquaviva

Il teatro fuori dai muri

Aggiornamento: 8 apr 2022

Cambiare l’aria attorno a sé fa vibrare note arcane nell’animo dello spettatore. Un esperimento antico e attualissimo



Molto prima che il Covid ci costringesse a una fruizione a distanza, il teatro all’aperto, negli spazi della città, comunemente detto «teatro di strada», aveva una sua importanza e una sua storia. Anzi due, una recente e una antichissima. «Teatro di strada» unisce due concetti che stanno agli antipodi.


Teatro, dal greco theatron, luogo dello sguardo, nell’antica Grecia era il luogo degli spettatori: spesso il pendio di una collina rivolto verso il centro d’attenzione, il cerchio magico, l’orchestra, «lo spazio circolare in cui avviene l’azione», dove il coro inizialmente e poi gli attori cantavano e danzavano le parole del poeta ispirate dagli dei.


Il termine «strada» invece richiama tutto un altro mondo. La strada sta al polo opposto di ciò che associamo al quieto consistere di uno spazio pronto ad accogliere eroi umani e potenze celesti. La strada è movimento incontrollato e distrazione, il teatro è movimento controllato e attenzione; la strada è spazio a-focale, il teatro costruisce un centro d’attenzione; in strada tutto accade simultaneamente, in teatro le cose accadono, più o meno, con una consequenzialità che consente di seguire uno o più «fili».


Considerate dunque come sarà difficile mettere insieme, intrecciare in una forma comunicativa unica, caratteristiche così antitetiche. In realtà l’espressione «Teatro di strada» nasce negli Anni 60-70 del ’900 e rende conto di una serie di pratiche artistiche delle neo-avanguardie, le quali mettono radicalmente in discussione tutta l’arte scenica precedente.


I primi esempi si vedono negli Stati Uniti, dove ci sono gruppi che usano il linguaggio teatrale come strumento per una critica al modello economico-sociale americano e alle sue politiche aggressive nel resto del mondo (vedi la mobilitazione globale contro la guerra nel Vietnam). E lo fanno scendendo in strada con farse popolari e con spettacoli itineranti, usando grandi pupazzi, i burattini, la commedia dell’arte, in un linguaggio a metà tra la parata e il corteo politico, tra la processione rituale e la festa. Sono modi che i teatranti di allora mettono a punto per raggiungere e aumentare la consapevolezza culturale e politica degli operai come dei contadini, degli studenti come delle donne, degli immigrati poveri come della gente di colore, e così via.


Ogni gruppo ha la sua particolare visione e motivazione. Gli echi di questi sommovimenti giungono quasi subito in Europa e anche in Italia, aggiungendosi a specifiche inquietudini già esistenti. Un grande artista e teorico italiano di quegli anni, Giuliano Scabia, racconta: «In tempi lontani, intorno al 1968, mi sono reso conto che se non ci davamo da fare a tener vivi i margini, a portare e ricevere vita, anche il centro avrebbe avuto problemi. Se si ammalano i margini si ammala anche il centro, ho pensato. Bisogna andare là, e camminarli i margini, passo passo. Ecco uno dei motivi che mi hanno spinto a costruire comunicazione e teatro nei luoghi di margine, prima a Milano poi nei quartieri di Torino poi nel manicomio di Trieste poi nei paesi dell’Emilia Romagna e via via in tanti luoghi». (Giuliano Scabia, “Cammina, cammina”, in Doppiozero).


Altri gruppi dell’epoca si concentrano invece sul lavoro dell’attore. Costruiscono cioè un attore che sia così potente da essere in grado come di cambiare l’aria attorno a sé, di far vibrare note sconosciute, arcane, nell’animo dello spettatore. Per far ciò amplifica la propria presenza fisica attraverso uno speciale training fisico-acrobatico che comprende anche un uso non convenzionale della voce e del canto, oppure utilizza protesi che lo rendono simile ad un’apparizione di sogno. Ed ecco dunque spiegato l’uso dei trampoli, delle maschere, di costumi che amplificano i volumi ed esasperano i cromatismi della figura. Ecco dove vivono i fantasmi.




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