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Il messaggio del Buddha è per tutti

The Buddhist Tapes/3 L'insegnamento di Siddharta si adatta alle culture


Questa è la terza parte della lunga intervista al filosofo e ricercatore Stefano Bettera sulle grandi domande per il buddhismo in Occidente.

Potete leggere la prima e seconda parte cliccando qui sotto:



Domanda: Stefano Bettera, lei ha scritto un libro, Felice come un Buddha, che ha reso semplici concetti complicati: questo però non significa che il buddhismo sia una via semplice. Anzi, alcuni ragionamenti sono davvero difficili da comprendere. Per spiegarli è possibile usare un linguaggio comprensibile a noi occidentali?


Risponde Stefano Bettera


«La parola del Buddha non è rimasta immutata per sempre: lui ha messo in moto la ruota del Dharma e ha detto “partiamo da qui, ma ciascuno faccia il proprio percorso». Quando Ananda vada lui e gli chiede “Come faremo quando tu non ci sarai più a riconoscere quello che sarà il vero Dharma?” lui risponde: ogni volta che incontrerete qualcosa che vi sembrerà parlare con la mia voce quello sarà il mio insegnamento, il mio Dharma. Non è valido solo quello che ho detto io. Questo ragionamento mette al riparo da una certa forma di ortodossia e pericolosa. Vestirsi come tibetani in Occidente senza esserlo è da sciocchi perché, proprio per lo stesso principio di contaminazione, non possiamo dimenticarci di essere nati qui. Perché per poter praticare il buddismo dovrei vestirmi come un cingalese? Non sta né in cielo né in terra. Se vado a fare un viaggio nello Sri Lanka e so che se si visita un tempio cingalese è richiesto il dress-code bianco, per una forma di rispetto mi vesto di bianco. Perché sono lì in quel contesto e devo parlare con il codice del corpo con le persone che sono lì in quel momento lì. A Milano posso anche mettermelo, per carità, ma questo non mi rende più buddhista.


Vale anche per il linguaggio: quello che è il Buddha fece in 40 anni di predicazione è stato parlare in migliaia di modi di versi a migliaia di persone diverse tra loro, proprio per permettere a tutti quelli che incontrava - che parlavano dialetti diversi, lingue diverse, venivano da contesti culturali diverse - di comprendere quello che stava dicendo. E talvolta nei testi trovi dei passaggi che sono espressi con un’incoerenza linguistica, proprio perché rispondono alla natura pragmatica dell’insegnamento del Buddha. Il Buddha non era un epistemologo, un linguista: il suo problema non era quello della coerenza linguistica, il suo problema era quello di fare passare quello che voleva dire.


Allora se si fosse trovato di fronte un ingegnere nucleare gli avrebbe parlato della divisione dell’atomo, se si fosse trovato di fronte un panettiere gli avrebbe spiegato come fare il pane. Essere comprensibili è un discorso totalmente buddhista. Con un’attenzione. In Occidente stiamo assistendo alla normalizzazione e alla semplificazione di qualsiasi concetto. Io vedo insegnanti di mindfulness che usano concetti buddhisti con imprecisioni gravi. Il fatto di dire cose comprensibili non significa ridurle concettualmente allo zero. Significa utilizzare mezzi abili (upaya) per trasferire alle altre persone un pensiero. Ma il pensiero resta profondo, complesso, e trasformativo».




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