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  • Immagine del redattoreAmalia Cornale

Il dramma senza fine di Emanuela Orlandi, il destino e la questione del dolore

Spesso ciò che accade nelle serie tv ci colpisce nel profondo, scuotendo tutte le nostre emozioni dalle fondamenta, anche se è tutto inventato. Ma quando le storie raccontate sono vere il nostro livello di coinvolgimento può toccare vertici di pathos altissimi. È il caso di Vatican girl, la nuovissima miniserie in onda su Netflix, che racconta, in quattro episodi, la scomparsa della quindicenne Emanuela Orlandi, nel lontano 1983. Quasi tutti conosciamo la vicenda dai resoconti delle cronache, ma davvero pochi, prima di vedere questa serie, saprebbero dare non tanto una risposta, che non c’è, quanto una semplice direzione ai fatti.



La miniserie è davvero molto ben fatta, con interviste ai familiari, ai giornalisti e a rappresentanti delle forze dell’ordine che si occuparono dei fatti. Vengono intervistate anche persone coinvolte a vario titolo, il che alza esponenzialmente l’asticella del coinvolgimento emotivo e dell’empatia verso la famiglia.

Il climax narrativo è raggiunto quando si parla del famoso presunto coinvolgimento di Renatino De Pedis (il Dandi, protagonista di un’altra bellissima serie tv: Romanzo criminale) nella sparizione della giovane – dice un testimone nella serie tv - «per fare un favore alla Chiesa» e di quando Papa Francesco avrebbe rivolto al fratello della ragazza queste parole: «Emanuela è con Dio». Roba da raggelare il sangue. Vatican girl non aggiunge nulla a ciò che è noto agli inquirenti e alla stampa, ma ha il pregio di mettere in fila gli avvenimenti, i colpi di scena, le certezze e le bufale, facendo pendere la bilancia della responsabilità della scomparsa di Emanuela su misteriosi esponenti del Vaticano.



Sono passati 39 anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi e questo stato di persistente sospensione, degno di Schrödinger, non fa fluire i nostri sentimenti nella direzione che li risolve, lasciandoci in preda ai dubbi più angoscianti. Emanuela è viva? È morta? Finché non si trova siamo immersi in tutte e due le ipotesi.



Dalla serie si capisce bene che c’è sicuramente chi sa, ma allora perché non si fa avanti? Perché non dà pace a questa martoriata famiglia? Dov’è il dharma? Dov’è la giustizia suprema che un luogo così sacro dovrebbe garantire?


Molto probabilmente non si saprà mai cos’è successo a Emanuela, e allora questa triste storia può solo insegnarci a saper gestire la nostra reazione davanti al dolore. Per il Samkhya-Yoga (due darśana, le correnti filosofiche indiane, ndr) ci sono tre tipi di dolore: la sofferenza personale, interna (adhyatmika), quella esterna (adhibhautika) derivante dalle attività umane, e quella cosmica (adhidaivika) derivante dal destino, dal fato.


E noi? Magari saremo anche riusciti a mettere mano ai nostri conflitti interni, ma come gestiamo le situazioni spiacevoli che non dipendono da noi? Dove rivolgiamo la rabbia che ci ribolle dentro quando il destino ci gioca un brutto scherzo? Quando di una situazione ingestibile diciamo «me ne sono fatta una ragione», fino a che punto è davvero così?


I nostri dolori sono poca cosa se paragonati a quelli della famiglia Orlandi, che sicuramente ha portato all’estremo questa ricerca, ma davanti a ogni dolore ciascuno può imparare, con lo Yoga, a fare appello alla forza della discriminazione (viveka) per mantenersi stabile e non farsi travolgere dalla dolorosa dualità della realtà.






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