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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

Il buio che ci fa capire chi siamo

«Conosci te stesso» era l'iscrizione sul tempio di Apollo a Delfi (γνῶθι σαυτόν, in greco). Forse inventata da uno dei Sette Savi dell'Antica Grecia (VII-VI secolo a.C.) o da una sacerdotessa di Delfi. Chissà. Ma è un consiglio spirituale centrale in qualsiasi ricerca interiore.


Di solito si pensa che basti accendere una luce per vedere meglio chi siamo e quando lo facciamo ecco che mettiamo “in luce” le nostre presunte virtù, cioè l'immaginazione che abbiamo su noi stessi, quelli che pensiamo siano i pregi e le presunte azioni virtuose. E siamo tutti giovani, freschi, senza rughe. «Certo, avrò anch'io i miei difetti», ci affrettiamo a pensare o a dirci per metterci al riparo. Come quando mi capitava di intervistare attrici o modelle bellissime e alla domanda «Qual è il tuo difetto», rispondevano «Sono golosa di cioccolato».

Oppure, al contrario, esageriamo nel vedere i nostri difetti, arriviamo a deprimerci, perché il giudizio è condizionato dal nostro stato mentale e un fascio di luce accecante che non ci fa vedere un bel niente.


Bisogna che cali la sera, che venga quel chiaroscuro che annuncia la notte o che la segue in attesa dell'alba, per “vedere”. Ci si conosce attraverso le ombre. Ci si conosce quando la mente è ottenebrata dai pensieri negativi, dalle preoccupazioni o dalle ossessioni. Che abbiamo tutti, più o meno. «Ma come, anche chi fa yoga vive questi momenti neri?». Ma è ovvio.

Se leggete Autobiografia di uno yogi vi rendete conto dei momenti tristi, addirittura bui, passati da Yogananda, momenti di scoraggiamento o di inciampo nel percorso. I diari di Madre Teresa di Calcutta sono pieni di disperazione per il “silenzio di Dio” che accompagna talvolta la vita di chi ha fede, ma - come noi - vive la solitudine e l'abbandono.



Ne passiamo di tutti i colori a periodi alterni e quando sei dentro è difficile pensare positivo. Però se sei su un percorso di ricerca, nel momento del buio, della tentazione, della baruffa interiore, sai che puoi fermarti a osservare. È lì che scatta la marcia in più. La “marcia” non è quella che fa andare a 300 all'ora, rende smart, sani e di successo. La marcia è il “folle”, quella che ti permette di restare fermo e osservare, ascoltare il motore, i piccoli impercettibili rumorini.

Se c'è una cosa che detesto è l'immagine dello yogin moderno che somiglia al manager di Wall Street degli Anni 80. Lo yogin (e la yogini) è un essere umano che ha preso contatto con il suo lato oscuro e lo maneggia con cura, lo indaga, lo osserva attentamente senza compiacersene e, facendo così, sente un impercettibile distacco ogni volta.


Questo è il motivo per cui il saggio che ha codificato lo yoga, Patanjali, insiste tanto con i pensieri vorticosi (le vritti) e con le cause della sofferenza (i klesha): è con questa indagine che mettiamo le mani nel fango e nell'humus, con quella che viene chiamata «meditazione», cioè il sedersi immobili ad ascoltare il respiro. Dice il Dalai Lama: «Quando sai esattamente com’è davvero l’“io”, potrai capire tutti i fenomeni interni ed esterni usando la stessa logica».


In sanscrito e nello yoga questa azione si chiama svadiyaya: è la conoscenza di sé ed è una delle tre caratteristiche di ciò che si chiama yoga (Yogasutra 2,1): passione per la ricerca (tapas), conoscenza di sé e delle scritture (svadiyaya) e accettazione del proprio karma e/o abbandono al divino (Isvarapranidhana o Atma pranidhana). Come vedete non c'è traccia di asana nella definizione di Patanjali. Ecco perché questo intero sito è illuminato dallo yoga anche se non parla solo di yoga, perché yoga è quelle tre cose e questa triplice intenzione illumina tutto il sapere dell'uomo e ne dà significato.


Ma c'è anche un mantra sanscrito che può essere rimandato a «Conosci te stesso» apollineo: «Tat Tvam Asi», Tu sei Quello, espressione che si trova nella Chandogya Upanishad (le Upanishad sono libri sacri dell'induismo e ultima parte dei Veda). Quando conosci davvero te stesso, scopri che contieni anche un barlume del divino, qualsiasi cosa questo possa significare per me e per te, e questo non fa di noi dei superuomini, ma ci riempie di gioia, ci permette di entrare in un flusso colmo di gratitudine.


Siamo tutti stanchi e desiderosi di riposarci. Abbiamo bisogno di ricaricarci mettendo il naso fuori dalla città o dal paese (se si può: ho passato anni e anni senza farlo e capisco chi non può), ma anche leggendo buoni romanzi (mi aspetta Philip K. Dick) e studiando per il prossimo anno, elaborando progetti nella quiete della vacanza o nel silenzio meraviglioso della città.


Ma se non lo fate già, lasciate che vi dia una piccola (r)ispirazione: in qualsiasi momento della giornata, quando potete, spegnete tutto, sedetevi e ascoltate il respiro per 5-10 minuti. Sul nostro Podcast trovate la meditazione di Fabia Schoss che dura addirittura solo 3 minuti. Sarà l'inizio di un'avventura meravigliosa in cui inizierete a conoscere voi stessi. E non smetterete più.



Il cielo di Parigi (Foto di Maxime Marechal)

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