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  • Immagine del redattoreFranco Acquaviva

Quando Werner Herzog precipitò nel vuoto (e da se stesso)

Il cinema tedesco degli Anni 70-80? Quello della triade Wenders-Fassbinder-Herzog? Meraviglia da riscoprire (sulla piattaforma MUBI per ora si trova solo un pugno di gioielli di Fassbinder, speriamo aggiungano presto anche qualche “prezioso” degli altri due). Quali rapporti hanno avuto questi registi con il teatro? Fassbinder, giovanissimo, dopo essere stato escluso dalla scuola superiore di cinema di Berlino, entra a far parte del gruppo di ricerca Action-Theater. Wenders pare invece non aver avuto particolari rapporti con la scena.


Di Werner Herzog si sa che ha fatto alcune regie d’opera, di cui una, nel 1985, al Teatro Comunale di Bologna. Al Teatro Comunale di Bologna lavorava Paco. Paco era uno dei macchinisti veterani di quella stupenda struttura.  Un marcantonio che manovrava quinte e fondali come fossero di carta.


Il palcoscenico dei teatri all'italiana è come la tolda di un veliero: vi si issano fondali, arlecchini e quinte come vele; come marinai anche in due-tre ci si aggrappa al fascio pettinato di corde che serve ad innalzare il fondale che andrà a “vestire” il palco; e quando si parte insieme e si vede il nero che sale, la notte del teatro che neutralizza le noie del giorno e prepara i sogni della scena, ci si sente un po' eroi, magari stupidamente, ma eroi: colui che erige con le proprie braccia un mondo di immagini mentali è un operaio del cuore e dunque anch'egli, come un operaio delle braccia, è qualcosa di molto simile a un eroe cavalleresco.


Paco aveva una capacità immediata di cogliere le situazioni, e una reattività irruenta, ma generosa. Nel suo modo di fare si sentiva un calore e una particolare carica di empatia. Al Comunale passavano Luca Ronconi, Liliana Cavani, e Werner Herzog, appunto. Quella volta il regista tedesco stava provando Doktor Faust di Ferruccio Busoni. Teneva parcheggiata la propria auto davanti al teatro. Era lì, in bella vista, da giorni. Vessillo di una libertà favoleggiata da tutti quelli che conoscevano le intemperanze geniali di quest’autore, le sue sfide alla natura, alla resistenza fisica sua e degli attori.


Era un’auto-mondo. L’interno ingombro di oggetti strani, a vista sul piazzale, sotto gli occhi di tutti quelli che passavano. Una vecchia Mercedes, monumentale, color crema, un po’ scassata, gli interni rivestiti in pelliccia di (finto?) agnello. Messa di sghembo, come a sfidare anche la consuetudine borghese del buon parcheggio, o meglio, piazzata come sopra un’immaginaria pedana, a fornire di tre quarti i tagli cavallereschi della sua nobiltà teutonica molto hipster. Il “mirino” del famoso emblema eretto sulla sommità dell’alto cofano dava l’idea di un’arma puntata contro l’ignoto, quell’ignoto che uno dei due celebri Werner del cinema tedesco di allora ci s’immaginava sfidasse ogni giorno, in ogni momento.


La scenografia del Doktor Faust presentava un’intera nave imprigionata nel ghiaccio. I cantanti agivano sulla superficie gelata del mare.

Paco, un giorno, sul piazzale di fianco al teatro, raccontò di Herzog durante le prove. Disse che aveva escogitato un effetto particolarmente rischioso: voleva che alcuni attori si facessero cadere dal graticcio per piombare a corpo morto sul palco (il graticcio è il soffitto attrezzato del palcoscenico del teatro all’italiana, dal quale si fanno pendere quinte, fondali e luci).


Benché un gran materasso fosse stato collocato sul pavimento per evitare sfracellamenti, ovviamente l’idea non garbava affatto ai collaboratori del regista. «Saranno stati venti metri di salto soccia, ma te lo vedi te uno che si butta da lì?». Rideva a tutta pancia Paco, appoggiato a una delle colonne del porticato esterno. Herzog aveva chiesto una breve riunione per esporre la propria idea, e mentre parlava tutti gli si erano fatti intorno.


Ogni tanto gli attori, scettici, buttavano un occhio al graticcio, lontano come un cielo di travi e corde, le cui nuvole color nero notte appese a funi d’acciaio parevano sul punto di scaricare un temporale di premonizioni nefaste sulla sorte di chi si fosse arrischiato a quelle altitudini per poi fiondarsi nel vuoto. Vedendo che le sue insistenze non sortivano alcun effetto a un certo punto Herzog s’infuria, si precipita come un toro verso la scaletta di metallo, sale velocissimo, quelli rimasti sul palco non fanno in tempo a fare e a dire niente. Paco racconta che lui si stava godendo la scena poco lontano, e noi, mentre parla, ce lo immaginiamo che se la rideva di gusto al riparo di quelle sue massicce spalle, le mani nodose strette attorno a un fascio di corde che stava per manovrare. Ma quando vede il regista salire come un pazzo la ripida scaletta Paco si blocca stupito. Alza la testa. Herzog è già arrivato in cima. Si sporge. Guarda in basso. Urla qualcosa in tedesco. È un attimo. Il suo corpo si sbilancia del vuoto. In che modo viene giù? Di testa, di schiena, di piedi? Paco non lo dice. Dice solo che il materasso a un certo punto sembra esplodere; si sente anche un gran botto.


Costernazione muta, immobile. Dopo qualche secondo è Paco il primo ad avvicinarsi. Si sporge, e vede. Herzog è pallido come un morto, senza fiato. Dopo che si fu rialzato, con qualche aiuto, il regista non diede altri segni di quell’ansia dimostrativa che lo aveva spinto a dare l’esempio perché altri lo imitassero - cosa che tutti s’erano ben guardati di fare. Per il resto delle prove Herzog non fece più alcun riferimento alla necessità di far precipitare qualcuno dall’alto. Gli era bastato precipitare se stesso. Del resto, solo ai grandi artisti è dato azzardare salti nel vuoto.

Backstage. Foto di Dirk (Beeki®) Schumacher da Pixabay

 

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