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  • Immagine del redattoreRiccardo Serventi Longhi

Il respiro del tempo, nel tempo del respiro

Aggiornamento: 9 set 2022

Che poi lo yoga, alla fine, dovrebbe portarci ad annullare il dono più grande che abbiamo ricevuto venendo al mondo: il tempo. Questo gioiello che si impreziosisce impreziosendoci a seconda delle modalità nel nostro trascorrerlo.

Il tempo non è denaro. Il tempo è la vita stessa per quel dono contraddittorio e misterioso che si chiama mente. Una parte di questa mente sta sempre lì a contare, calcolare, separare, mettere i puntini sulle «i». «Questo è mio, questo è tuo». Codifica, elenca, crea durata, eccetera, eccetera. Per lei è il senso di se stessa. Per lei scandire è esserci. Come poter rinunciare alla cronologia? Allo scorrere? All’oscillare dal «prima» al «poi»?

Il mio tempo è prezioso, diciamo, Come se ce ne fosse uno di proprietà personale. Il tempo è un’altra di quelle incognite che in ogni modo la scienza ha cercato di dimostrare fino ad arrivare all’affermazione più accettata e comune che non esiste. Tanto sforzo per nulla. Bah...

Forse per questo è prezioso? Come tutte le chimere che rincorriamo, che non riusciamo ad afferrare. Corri un po' dietro al tempo, prova a farlo tornare indietro, come diceva Dalla parlando di un famoso e tragico treno.

E quanto ci costa perdere tempo. «Chi ha tempo non aspetti tempo!». Ma allora, se è tanto prezioso, perché sforzarci ad annullarlo, perché non goderne totalmente? Intanto, fintanto che lo abitiamo, questo non è escluso, ma è proprio perché nel viverlo ci identifichiamo nel suo scorrere che - come tutto - temiamo poi di perderlo. E come tutto ciò che temiamo di perdere, questo provoca ansia, paura, dolore. Ciò che accade nello yoga, è entrare in relazione profonda proprio con ciò che affermiamo non esista, il tempo (che paradosso, eh?). Non tanto perché lo osserviamo esteriormente in ciò che si trasforma con il suo trascorrere rispetto a un punto iniziale da cui è partita un’esperienza qualunque (dalla nascita nostra o di un figlio, o sull’orologio in attesa che trascorra lo spazio dedicato alla pratica, o sul calendario per non dimenticare un appuntamento), quanto perché in noi esiste il timer biologico (ciò che fa tic-tac detraendo ogni volta un tic o un tac dalla nostra durata qui in questa esperienza chiamata vita) più perfetto che possiamo immaginare: il respiro.

In India si dice che nasciamo non con degli anni da vivere, ma con una certa quantità di respiri nel nostro serbatoio. Quando cessa il respiro, il serbatoio si esaurisce, in ogni essere vivente, il famigerato tempo, cessa la sua presenza, e terminano le filosofeggianti idee su di lui che forse se la ride (da tanto tempo) chissà sotto quale forma cosmica.

In India ha lo stesso nome della morte: Kala. È colui che in sé cela anche questa sorella verso cui tutti ci direzioniamo dal momento che il viaggio inizia (lo vedi che ti viene proprio da codificare una partenza per definire un arrivo?) o prosegue.

Ogni tic ed ogni tac viene scandito dall’involontarietà (ma che può divenire consapevole) del movimento dato dall’inspirazione e dall’espirazione. Tic-tac. Tic-tac. Inspiro ed espiro. Ci avevi mai pensato? E se fosse vero che nasciamo con un numero di respiri, come fosse una ricarica prestabilita? Il respiro diventa un amico che (se gli dai tempo) lentamente riesce a parlarti di te. Ti fa accorgere di come stai. E se sobbalza freneticamente puoi aiutarlo a controllarsi, accompagnandolo, accogliendolo. Ascoltandolo, rallenta, e le prospettive si trasformano. Il frenetico tic tac che era inizialmente guidato dal movimento mentale, dal flusso dei pensieri, si deposita in un lento tic(pausa)tac. E la mente segue. Segue con resistenza, a volte, perché non si fida. Perché è abituata a comandare e a decidere, e soprattutto ad assoggettare tutto alla fretta e alla prestazione. Ma poi, quando rendiamo questa pratica, questo “allenamento spirituale” (Prana significa respiro, forza vitale, ma anche Spirito) costante, anche per una breve durata (uffa, con questo tempo!), ma costante, la resistenza lascia il passo all’abbandono.


E accade che magari il nostro perfetto sistema di sopravvivenza (il sistema nervoso) cessi di richiedere così tanto impegno al corpo attraverso il respiro. Quando le tensioni fisiche sono annullate, quando il pensiero si riduce da tempesta di neve a piccoli sporadici fiocchi che si sciolgono al sole della consapevolezza, la richiesta di ossigenazione da parte degli organi preposti, gradualmente diminuisce fino a interrompersi spontaneamente. Il respiro sospende la sua oscillazione. Il pendolo si ferma. Se il tic-tac si interrompe, allora vuol dire che il tempo cessa di esistere.

E forse è per questo che si dice che lo yoga allunga la vita (anche i saggi muoiono, ricordiamolo): se abbiamo i respiri contati, e ne rallentiamo l’utilizzo, la durata si allunga. È un gioco, ovviamente… O no? Fatto sta che ciò che in noi è più incline a identificarsi nel tempo, nella durata, nel “finito” inteso come materia, confine, cornice, è ahamkara, l’ego. Asmita, il senso dell’io: «Esisto perché sono nella durata» e non ne voglio uscire, sembra salmodiare questo amico fuggendo per tutta la sua esperienza dall’idea di una fine.

Bene, se il nutrimento di questo tempo viene meno, allora anche chi se ne nutre tace. E accade l’Infinito. Un istante eterno. Patanjali dice che Isvara (Il Signore - Colui che tutto permea) non è assoggettato al trascorrere del tempo (Yogasutra 1,26). E l’abbandono all’Essenza, al divino, è condizione necessaria sul sentiero dello Yoga, assieme all’entusiasmo, all’ardore, all’introspezione e alla guida dei testi che vogliono essere scoperti non con il ragionamento e la speculazione, ma con l’esperienza e la pratica.

Allora si accende una dimensione interiore dove, trasceso il tempo, da piccola scintilla torniamo a dissolverci nella sorgente della Luce stessa. Il tempo nasconde, non solo le rughe, non solo il ritmo. Nasconde a noi stessi, chi siamo davvero.


Foto di Riccardo Serventi Longhi


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