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  • Immagine del redattoreElia Perboni

Sono entrato in carcere a suonare e il rock ci ha fatto evadere

In sala prove con i detenuti. Per sperimentare come la musica abbatte i muri..


Varco la soglia del carcere. A ogni passaggio le porte si chiudono dietro di me, il contatto con il mondo esterno viene interrotto, il cellulare non entra, il terminale del nostro quotidiano che tutto collega, fisicamente non è più con te, qualsiasi oggetto viene controllato. Non potrò vedere né sentire ciò che ho lasciato. Non sono solo, gli agenti conducono me e il gruppo del quale faccio parte in un percorso di larghi e lunghi corridoi; incontro una nuova popolazione dall'abbigliamento distintivo; persone in tuta, altre nella divisa della polizia penitenziaria che gentilmente salutano alzando leggermente la mano; entro in una bolla straniante, un tempo dilatato in una città confinata ai bordi di un'altra città.


Entro in un carcere modello, ben tenuto, oltre le sbarre il verde è curato, ci sono i fiori della primavera che segnano le stagioni e il tempo che passa, la clessidra di chi vive qui dentro, i muri dei corridoi sono ricchi di colori, disegni, raffigurazioni. C'è spazio e luce. Diceva Fëdor Dostoevskij: «Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni».


Camminiamo fino ad arrivare alla nostra meta: una piccola ma ben organizzata sala della musica. È, questo, un camminamento che intraprendo periodicamente con altri “suonatori” per un progetto musicale dedicato all'integrazione con i detenuti. Facciamo musica assieme.

L'incontro con gli “ospiti”che ci attendono è fatto di saluti e strette di mano, conosciamo i loro nomi e gli strumenti che imbracceranno. Le parole cominciano a girare come fossimo in una normale sala prove, si conversa su questioni tecniche, sulla scaletta di titoli ad “ampio respiro” che consenta a tutti di giocare con la musica, accoglienza, questo è l'intento.


Inizialmente percepisco un velo d'imbarazzo, timidezza, oppure chissà, noi ricordiamo il mondo fuori, indossiamo la quotidianità della vita “oltre le mura”, quella che sognano un giorno, il più vicino possibile, di recuperare. Loro sono corpi nascosti al mondo esterno. Qualche sorriso amaro, forse rassegnazione e molta gentilezza. Sai che sono lì per pagare un conto con la giustizia e, lo ammetto, mi domando durante quei momenti quali saranno le loro storie, come avranno infranto la legge, quanto tempo dovranno trascorrere qui dentro. Ma non ci saranno né domande né risposte, in questo contesto non ci debbono né possono essere. C'è rispetto, non c'è giudizio, quello è già stato “pronunciato”.



Ci assestiamo tutti assieme, ognuno con il proprio strumento, in quest'area insonorizzata che si trasforma per tutti in una piccola isola viaggiante, sparisce il carcere, spariscono le nostre storie personali, pregiudizi. Inizia il dialogo, la musica diventa subito l'elemento unificante, pian piano si sta assieme con le note che abbattono mura. Sento cadere, nel tempo della musica, le barriere, c'è empatia, scattano sorrisi, c'è vita normale. Ci divertiamo. Nel tempo della musica siamo, come sempre, in un “mondo altro”.



Ognuno ha la propria passione musicale, qualcuno è meno allenato e teme di esporsi in una cattiva performance, ma non importa, viene sostenuto e applaudito, non c'è gara. Altri hanno maggiore esperienza; generazioni diverse provenienti da luoghi diversi che s'incontrano e s'intrecciano così come le influenze dialettali: c'è una bellissima voce che canta un napoletano perfetto e scopriamo con stupore che è siciliano, con lui ritroviamo Carosone, quello di Tu vuo' fa' l'americano. Atmosfera allegra. La leggera tensione si smorza. C'è un appassionato di Celentano che si diverte a imitarlo anche nell'atteggiamento,

nella cadenza della voce e l'atmosfera si fa ballata nell'inevitabile Ragazzo della via Gluck. È un viaggio tra “distanze”.

Il più giovane di questa comunità ci sposta in mondi più moderni, arriviamo persino a Prince. Si provano gli accordi, il ritmo e poi si va. Spesso si chiude con una bandiera del rock'n'roll ma anche espressione del luogo in cui siamo, Jailhouse Rock. Che dice: «Il direttore ha organizzato una festa nella prigione della contea/La banda della prigione era lì e iniziarono a piangere/Tutto vibrava/Tutti facciamo rock...».



È la mattinata di un sabato, ci sono visite dei parenti e degli affetti attesi da giorni. Alcuni li abbiamo visti entrare con noi, ognuno con un pacco, buste di Esselunga e dentro, forse, odore di casa. Così qualcuno, di questa improvvisata banda ci saluta in anticipo, altri restano sino alla fine dello spazio consentito. Noi dobbiamo andare, loro restare. Qualche altra gabbia la ritroveremo fuori di lì, ma questa è un'altra storia...


Jailhouse Elvis. Foto di Freddy da Pixabay.


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