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  • Immagine del redattoreAndrea Fugazza

Gli atti purificatori e i rituali che preparano alla realizzazione dello Yoga

Le discipline orientali moderne e in particolare lo Yoga, sono il frutto di una costante evoluzione, trasformazione e adattamento, di discipline originali più antiche, di cui spesso si sono andate perdute le tradizioni e i contenuti primari. I principi e le norme che regolavano la disciplina dello Yoga erano notevolmente complessi. Così come vengono enunciate nei testi di riferimento, Shiva Samitha o Hatha Yoga Pradipika, appare complesso coglierne il senso logico razionale, che sembra non avere attinenza con la realtà oggettiva. In questo sta evidentemente il punto focale del discorso.


In generale nessuno dubita della razionalità delle teorie scientifiche, ma per ciò che concerne la filosofia o il misticismo, come possiamo stabilire la relativa razionalità che esse possiedono? Le teorie scientifiche consistono in tentativi di soluzione di problemi, che vengono sottoposti a severi controlli per confermare o invalidarne i risultati. Si basano sulla ricerca, su ipotesi, sul controllo di dati e su misurazioni di differenti tipi, per giungere a una serie di conclusioni dimostrabili e ripetibili.


Nello Yoga questo principio apparentemente inconciliabile, viene applicato ad un altro principio che si trova alla base di tutto il misticismo indiano: non è nella realtà oggettiva che il ricercatore dovrà porre tutti i suoi sforzi, le sue domande, ma nella realtà soggettiva o super soggettiva dell’anima. Lo sforzo che si è chiamati a compiere sta nella capacità di “uscire” dal proprio modo di pensare, credere, osservare per comprendere qualcosa di diverso dal pensiero scientifico oggettivo, per spronarci a ricercare verità più sottili e profonde che si possono trovare solo dentro sé stessi.


Il maestro Andrea Fugazza durante una lezione alla Associazione Artè di Milano, dove insegna.

Dopo questa lunga premessa, possiamo ricordare come nella tradizione antica, il praticante di Yoga o adepto, collocava nel centro della propria quotidianità una serie di rituali che lo dovevano preparare alla realizzazione della disciplina dello Yoga, in conformità alla descrizione fatta dalle scritture e sotto gli insegnamenti e le istruzioni del proprio maestro.

Molte di queste pratiche sono tutt’oggi alla base della vita di molti induisti. Prima del sorgere del Sole, nel periodo di tempo chiamato Brahma-muhurta, le ore precedenti al primo raggio di Sole, l’adepto si consacrava alla realizzazione delle pratiche di purificazione che precedevano la sua Sadhana. La Sadhana erano le discipline spirituali a cui il praticante si sottoponeva dedicandosi ad una vita ritirata, basata sulla meditazione e sul sacrificio di sé.

Seguendo un preciso ordine di azioni, l’adepto doveva eseguire le abluzioni d’acqua e poi, vestito del tradizionale abito bianco, recitare il Pranam o Satnam, il mantra recitato per glorificare il proprio Maestro.

Subito dopo doveva applicare sul corpo la Tilaka, una serie di simboli mistici tracciati principalmente sulla fronte e su varie parti del corpo, tradizione ancora in uso tra i sacerdoti durante le cerimonie sacre. La Tilaka si applica nella zona del terzo occhio, dove si fissa l’attenzione e si raggiunge lo stato di meditazione profonda. Lo stile della Tilaka denota l’appartenenza a specifici sistemi di culto e, in particolare, a precise successioni discepolari, chiamate Sampradaya.


Nella tradizione Vaishnava si “segna” la fronte con il simbolo del flauto di Krisna, nello Shiavaismo con il punto rosso sormontato da tre linee bianche, il tridente di Shiva. Sono realizzate con argille sacre, come quella del Gange e colorate con Kunkum o paste di sandalo.

La “segnatura” del corpo era accompagnata dalla recitazione di una serie di mantra, mentre venivano apposte con gestualità dedicate della sola mano destra, chiamate Mudra. L’ordine era minuzioso e partiva dalla fronte per procedere verso le altre parti del corpo.

Questi Mantra, diversi spesso da scuola a scuola, sono però i Mula-mantra o mantra seme delle diverse espansioni e personalità di Dio, Bhagavan o del Brahman supremo, l’Anima Suprema.


Dopo aver espletato queste funzioni l’adepto era pronto per realizzare la cerimonia del Achamana, il rituale di purificazione prescritto per poter svolgere le attività sacre e la pratica di Yoga. In molte tradizioni esistono due metodi: il primo si chiama Sadharana-achamana o purificazione regolare perché viene eseguita sempre prima della recitazione dei mantra più importanti, come la Gayatri, prima dell’adorazione cerimoniale Arati, dove viene offerto del fuoco per mezzo di lampade alle divinità nei templi, e prima di recitare le scritture.


Il secondo si chiama Vishesha-achamana, una purificazione speciale necessaria per accedere al servizio diretto del maestro, al servizio delle divinità nel tempio, prima della Sadhana per l’adepto di Yoga. Achamana si esegue versando gocce di acqua del Gange su specifiche parti del corpo in un preciso ordine, recitando mantra opportuni. I mantra venivano scanditi versando dal Patra, il contenitore dell’acqua, una goccia a partire dalle mani e poi sul resto del corpo. Veniva ripetuto con un’altra recitazione di Mantra toccando con il pollice destro le diverse parti del corpo, a partire dalla bocca.


Terminato questo procedimento l’adepto si dedicava allo Smaranam e successivamente al Bhuta-Shuddi: lo Smaranam consiste nella recitazione silenziosa di una serie di Mantra e Śloka (due tipi di metrica indiana, uno per le formule meditative e l'altro per la poesia epica, ndr) vedici, che ricordavano all’adepto la sua reale posizione eterna, rispetto all’Anima Suprema, di essere eternamente esistente, cosciente e beato (sat-cit-ananda-vigraha). Parimenti il Bhuta-shuddhi, consisteva nella recitazione di Mantra che riassumevano i più profondi significati delle conclusioni filosofiche vediche.


È importante chiarire che non si trattava meramente di pratiche accessorie, ma che invece rientravano nel conseguimento di quelle qualità descritte come fondamentali al corretto svolgimento della Sadhana. Nello Yoga ci sono due metodi di purificazione, uno mistico che è quello appena descritto, l’altro fisico conosciuto come Shodhana che si realizza a partire dagli Shat-karma.


Gli Shat-karma sono composti da sei azioni purificanti, concernenti la pulizia interna del corpo, la pulizia della fisiologia sottile o energetica e della mente. Un interessante modo di vedere lo Yoga come un processo di purificazione costante che dal corpo muove verso la coscienza. I sei processi di purificazione interna descritti sono fondamentalmente lavaggi realizzati per la pulizia interna degli organi, attraverso l’utilizzo di acqua, spesso salata e piante mediche associate al burro chiarificato chiamato Ghee.

Questi lavaggi sono elencati con i nomi di Dhauti, Vasti, Neti, Lauliki, Trataka e Kapalabhati e sono menzionati nell’Hatha Yoga Pradipika e nella Gheranda Samitha. Un’altra fondamentale Shodhana o pratica di purificazione, era realizzata attraverso il Pranayama, la fase dello Yoga in cui l’adepto si consacrava al controllo del respiro.


Nadi-shodhana era la pratica di purificazione dei canali energetici, della fisiologia sottile, in cui scorre il Prana, l’energia vitale che alimenta il corpo energetico e in cui si muovono la mente e la coscienza. Questa purificazione avveniva realizzando una precisa respirazione, alternando le narici, per un tempo e secondo regole alquanto difficili da credere realizzabili. Inoltre si differenziava a sua volta in due modalità: la prima con l’ausilio di Mantra, Samanu-shodhana, associati alla respirazione e da recitarsi mentalmente, l’altra senza Mantra, Nirmanu-shodhana.

Ora l’adepto era pronto alla disciplina spirituale.


La domanda che ci si pone è perché fossero necessari tali norme per rendere adeguato un soggetto ad accedere alla realizzazione della disciplina. A questo è possibile rispondere ricordando che lo scopo dello Yoga era la realizzazione del Samadhi.

Il Samadhi è uno stato della coscienza in cui l’anima si spoglia di ogni identificazione materiale per realizzare la sua vera natura spirituale. Per meglio spiegare questo concetto sappiamo che, sia nello Yoga sia nell’Induismo, si trovano l’idea di reincarnazione e liberazione dal ciclo di nascite e morti. L’anima, eterna e immutabile, “cade” dalla sua posizione originale ed eterna, per incarnarsi nel mondo materiale acquisendo un corpo fisico. Il Samadhi era la via che conduceva alla libertà per l’anima condizionata.




Nell’Ashtanga-yoga di Patanjali sono menzionate gli otto anga (braccia) che conducono al Samadhi, che comprendono anche le posizioni fisiche e la respirazione. Nel Bhakti-yoga (lo yoga devozionale, ndr) viene posto l’accento alla contemplazione della forma e delle qualità del Signore Supremo, in forma di meditazione e recitando il Maha-mantra, per ristabilire la relazione che lega l’anima individuale alla persona suprema. Nel Jnana-yoga lo studio della conoscenza trascendentale, lo sviluppo dell’intelligenza spirituale attraverso il discernimento tra temporale e finito ed eterno e infinito, portava attraverso la meditazione a giungere alla totale fusione della coscienza individuale nella coscienza totale e assoluta del Brahman.

Ogni scuola di Yoga ha elaborato nel tempo il proprio bagaglio di tradizioni e conoscenze, a partire dalla concezione di verità assoluta che veniva posta al centro del sistema di pensiero.


Oggi abbiamo la fortuna di poter leggere in italiano le scritture che descrivono molti degli aspetti dello Yoga, così come erano concepiti nell’antica India. Da questa lettura è possibile trarre insegnamenti e un punto di vista completamente diverso, che ci ricorda come, nell’essere totalmente immersi e identificati nelle nostre vite, nei nostri abiti sociali, culturali e “tecnologici”, abbiamo bisogno di tornare a porci al centro del dibattito come individui, secondo principi, codici di comportamento e valori che possono portare un sostanziale contributo di crescita.


Un «aarti» sul Gange a Rishikesh.



 

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