Sapevate che i Fab Four c'entrano pure con Philip K. Dick e col teatro più incredibile del mondo? Qui ce lo racconta il maestro Franco Acquaviva
C’è un film dove, per una qualche congiuntura spazio-temporale che giunge a scardinare il corso degli eventi, i Beatles non sono mai esistiti. L’unico che scampa a questo oblio universale è un giovane musicista che sta cercando di imporsi con la sua musica. Dopo il primo sgomento intuisce che ha in mano un potenziale immenso e comincia a ricantare tutte le canzoni del quartetto; in breve diventa universalmente famoso.
Ho usato due volte il concetto di “universale” (aggettivo e avverbio), non a caso.
Ogni volta che si parla del gruppo di Liverpool si ha la sensazione di una rottura di tutti i limiti di spazio (la loro fama è arrivata dappertutto), e nel caso del film anche dei limiti di tempo (lì se ne dà una specie di dimostrazione in negativo). Adesso, con l’uscita del “nuovo” pezzo dei defunti Beatles (nato pare senza troppe perversioni tecnologiche), Now and Then, i limiti di tempo sono rotti anche nella realtà materiale. Un brano dalla tempistica breve del song e, insieme, anche un brano simultaneamente eseguito dall’interno di tre finestre temporali parecchio distanti l’una dall’altra: il 1977 della registrazione originale di Lennon in musicassetta; il 1995 della parte di chitarra suonata da Harrison; il 2023 della restante parte suonata da McCartney e Starr!
Credo che una cosa del genere avrebbe fatto felice Philip K. Dick; e infatti parrebbe uscita da un suo romanzo. A proposito: Dick era un devoto ammiratore dei Fab Four, addirittura è ascoltando Stawberry Fields Forever che lo scrittore americano ebbe la sua prima esperienza importante, e sconvolgente, di prescienza così come viene raccontata nell’oceanico L’esegesi (9.000 pagine) e negli ultimi romanzi; il collegamento telepatico con una intelligenza fuori dal tempo e dallo spazio, onnipervasiva e onnisciente: lui la chiamò VALIS, acronimo per Vast Active Living Intelligence System (il suo modo per dire Dio). Arrivare a Dio attraverso i Beatles! Chi lo avrebbe mai pensato!
A parte il cinema, nel quale la presenza dei quattro eterni ragazzi è cospicua, ma non sarei in grado di scovarne le tracce in maniera sistematica, nel teatro non direi che ci sia stata un’attenzione specifica alla loro musica, tolto forse qualche più che probabile musical. Non potrei però dirlo con certezza. Ad ogni modo questo sarebbe un buon argomento per una ricerca: vedere in che modo e se le canzoni del quartetto inglese siano entrate o abbiano ispirato testi teatrali o spettacoli di teatro d’arte. Vero è che i Beatles e un certo movimento teatrale degli anni a cavallo tra i ’60 e i ’70 del XX secolo una cosa in comune l’hanno avuta: interpretare, pur se in modi diversissimi, lo scombussolamento generale di quell’epoca, le turbolenze artistiche, sociali, politiche, contemporanee alle prime manifestazioni della cultura giovanile e della controcultura; un estesissimo tessuto palpitante di innovazioni e sperimentazioni musicali, artistiche, teatrali cui partecipa anche la cultura pop più aperta alla ricerca (pur con tutti i compromessi commerciali del caso). Non per nulla si è soliti usare la categoria di “sperimentazione” per un album come Sgt. Pepper’s del 1967; sono anni che vedono l’esplodere globale di una miriade di esperienze teatrali radicalmente nuove e realmente rivoluzionarie in tutto l’Occidente (e non solo, si veda ad esempio analoghi sommovimenti aldilà dell’allora cosiddetta “Cortina di ferro” che divideva Ovest capitalista da Est socialista).
Sono gli anni, fra l’altro, in cui si forma un personaggio essenziale del teatro a venire, quella che diventerà l’attrice guida di uno dei gruppi teatrali più rivoluzionari del tempo: il danese Odin Teatret, fondato e diretto dal regista e teorico Eugenio Barba, a Oslo, nel 1964. Gruppo che a tutt’oggi nonostante i 60 anni di vita, che compirà nel 2024 (longevi non sono solo i Rolling Stones…), non ha ancora perso la sua forza e la sua influenza. Iben Nagel Rasmussen, l’attrice guida di cui si diceva, quando entra nel gruppo, nel 1966, ha già attraversato il mondo al seguito dei movimenti pacifisti giovanili, in un’erranza figlia di quell’inquietudine esistenziale e politica non insolita tra i giovani di quella generazione. Il suo boyfriend in quegli anni tumultuosi si chiama Eik Skaløe, che di lì a poco diventa una delle prime rockstar danesi, insieme al suo gruppo, gli Steppeulvene.
Eik dedica a Iben una canzone che si chiama Itsi Bitsi (il nome con cui lui chiamava la sua amata). Nel brano vi si sentono molto le influenze di Dylan e di certo acid rock, la voce di Eik è strascicata e sporca comme il faut; il suono da garage band sbinariata dalle sostanze. E di sostanze Eik e Iben erano assidui frequentatori.
Eik ne morirà di lì a poco, in India. Iben rischia la vita, ma si salva con incredibile tenacia nell’incontro con l’Odin Teatret, cui segue una carriera tutt’ora in corso, incredibile, da tigre di un teatro che, per semplificare, potremmo definire sciamanico, situato nel punto d’incontro tra danza, rituale laico ed espressionismo energetico del corpo; tra possessione e rigore formale.
A questo punto ci si chiederà: cosa c’entrano i Beatles? Be', dal momento che il tema è la loro musica in rapporto al teatro, alla fine un esempio l’ho trovato. Ed è una delle scene clou dello spettacolo dell’Odin Teatret Itsi Bitsi, appunto, con la regia di Eugenio Barba. Qui Iben racconta della sua storia con la morfina: in un’azione scenica fortissima, dove l’attrice riprende i gesti tipici di preparazione della “dose” e li cristallizza in una partitura gestuale stilizzata e ad alta temperatura emotiva, i due attori-musicisti in scena di fianco a lei, che in quel momento assumono il ruolo di complici del “buco”, quasi pusher, canticchiano a labbra chiuse e in perfetta polifonia proprio All you need is love. Per uscire dall’inferno c’è bisogno di amore. Oggi come non mai.
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