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  • Immagine del redattoreRiccardo Serventi Longhi

Anche chi fa yoga ha paura della morte

Ero in vacanza. Una delle vacanze più belle che si potessero ricordare allora. Quando questo tempo durava tre mesi, vissuti in un luogo protetto da tutto, trascorsi fra interminabili divertimenti, innamoramenti, spiaggia e sole. Le località balneari spesso erano, fino a qualche decennio fa, un porto franco fra l’anno scolastico precedente (per me spesso con gli esami di riparazione) e quello successivo. Un luogo caro al cuore che vide i miei primi passi in tutto, dal camminare al triciclo, dalla bicicletta alla guida della moto fino all’automobile. Dal primo imbarazzato bacio, alla scoperta del sesso. I primi soldi guadagnati insegnando ginnastica e nuoto prima di tornare fra i banchi sui libri. Tutto era permesso in un perimetro protetto dalla spensieratezza, dagli eventi esterni.

In quegli anni televisione, radio e informazione non incombevano sull’adolescenza come accade ora per cui, pur essendo un periodo duro, buio, quello a cavallo fra gli Anni 70 e gli anni 80, le notizie non entravano martellanti in tempo reale a destabilizzare umore e leggerezza nelle vacanze di un teenager; rimanevano dentro una scatola gestita da tasti scrocchianti o da un rudimentale telecomando (eravamo agli albori dei primi colori) . All’ora di cena, di sfuggita ed in attesa di uscire di nuovo a esplodere ancora di vita dopo un veloce pasto, in casa risuonava la voce di ingessatissimi giornalisti che elencavano fatti e misfatti della giornata. Ma non agganciavano per alcun motivo la mia attenzione.

Le prime ore del pomeriggio a metà luglio. Nel frastuono afoso delle cicale fra i vialetti di questo luogo sacro che custodiva le vacanze, mentre con alcuni amici parlavamo di chissà cosa, vediamo arrivare, con un volto indimenticabile, un compagno in lacrime. Non riusciva a parlare. Balbettava, gli occhi gonfi. Credevamo stesse male, che fosse caduto dal motorino, ma il suo Ciao era intatto e lui non aveva nessuna escoriazione. In quegli anni, cadere dal motorino, senza casco, in costume da bagno, era davvero un’esperienza che chi ha provato (parlo con cognizione di causa) non dimentica.

«Luca… è morto», dice. «Luca chi?», chiedo io «Luca B». Silenzio «Cosa?!» Nemmeno chiedemmo in che modo. Silenzio. Non riuscivo a emettere suoni, né a piangere. Non uscivano le lacrime. La mia mente non decodificava il messaggio. Non era previsto. Luca? Sarebbe dovuto arrivare di lì a poco ospite del compagno che ci aveva dato la notizia.

Non poteva esistere una cosa del genere. Non si muore a 15 anni. Non è contemplato il concetto di morte, a quell’età si è eterni. Questa è un’idea che più in là ho iniziato ad esplorare. La morte è un salto in cui non trovi punto di arrivo. Il distacco da chi si ama senza possibilità di ritorno è un trampolino che difficilmente contempliamo o accettiamo, ma è un evento che vissuto in età così precoce assume un valore tremendamente lacerante e misterioso. Ci accompagna dal primo vagito, ma nessuno ce lo ricorda più durante i primi passi del viaggio. In seguito viene velata. Accettata come una tassa imposta. È compresa nel pacchetto che riceviamo in dono, ma la evitiamo accuratamente. Eppure sarebbe così importante osservarla, invece che fuggirla - come avviene nella società occidentale - come fosse un tabù, una cosa sporca, qualcosa che non ci appartiene. «Non l’hai saputo?!»: bastano queste parole per terrorizzarci.

Abinvesha viene definita nello Yoga: è uno dei cinque klesa o «afflizioni» descritti negli Yogasutra, i 195 (o 196) aforismi con cui il grande saggio Patanjali nei primi secoli del primo millennio, descriveva la strada per uscire dalla schiavitù della mente. Per realizzare il nostro vero Sé.

Le cause che imbrigliano la nostra felicità, la nostra essenza, insomma, ciò che siamo veramente sono: l’ignoranza (Avidya), ovvero l’ignorare chi siamo al di là delle identificazioni che il nostro percorso di vita ha costruito intorno a sé, l’incapacità di vedere le cose come sono perché filtrate dalla seconda afflizione, il senso dell’ego (Asmita). Ruoli, nome, cognome, società, tutto tende a costruire confini, maschere e protezioni che annebbiano la nostra luminosità, la nostra Essenza.

Poi c’è il desiderio, insistente, di appagare il piacere (Raga), e la necessità di allontanare ciò che non ci piace, la repulsione (Dvesa) e, appunto Abinvesha, ossia l'attaccamento alla vita o il timore della morte che sin dalla nascita è insito nella natura di ogni essere vivente.

Della morte in generale, mi viene da pensare, ossia della fine delle cose. Del termine. E questo riguarda tutti, ma proprio tutti, come spiega Patanjali: «È radicato anche nel saggio». Chissà, forse anche Cristo gridando all’abbandono sulla croce ebbe umanamente paura.



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