Mario Raffaele Conti
Altro che benessere, lo Yoga è una rivoluzione
Aggiornamento: 6 giorni fa
Assisto da settimane alle discussioni (anche molto accese) che su Facebook provocano i post del mio maestro, Antonio Nuzzo che richiama ai principi più sottili dello Yoga. È evidente che le sue siano provocazioni fatte in modo da scatenare la discussione, perché è solo da essa che può scaturire un ragionamento su questa disciplina.


È ovvio che lo Yoga che conosciamo oggi non è quello “della tradizione”. È ovvio che, come tutti gli insegnamenti filosofici e spirituali, deve adeguarsi ai tempi, provare a vestire i modi e i linguaggi delle varie epoche. Il rischio sotteso a questo sacrosanto adeguamento generazionale è che si perdano però le intenzioni originarie che, invece, sono e possono restare al centro di un ragionamento legato a qualsivoglia pratica yogica.
Che cos’è lo yoga? La risposta a questa domanda non può essere opinabile. Non può essere considerato – come invece spesso è – un metodo di benessere, una risorsa per la nostra schiena, un modo per vincere lo stress. Questo atteggiamento non è solo un tradimento dello Yoga, ma soprattutto un modo per asservire le cause stesse del malessere, dello stress e del mal di schiena, come abbiamo spiegato qualche settimana fa.
Lo yoga è e deve essere un metodo rivoluzionario. La rivoluzione non può non essere sostenuta da un pensiero forte e solido, altrimenti diventa fast-food, fast and furious e fast-track, un passaggio veloce e furioso, un’esperienza da ingurgitare e poi espellere.
Lo Yoga è un modo di intendere la vita, le relazioni, il sociale. Lo Yoga è il modo più politico di intendere la spiritualità. Non è mindfulness che ha altre finalità, prima tra tutte quella di limitare i danni mentali; non è pilates che ha soprattutto la finalità di limitare o curare i problemi fisici e di mancanza di consapevolezza; non è una religione che attraverso i precetti promette la salvezza futura.
Lo Yoga è un metodo che conduce all’arresto dei pensieri ossessivi della coscienza per evitare sofferenze future. Lo dice colui che ha codificato il metodo che si chiama Patanjali e intorno al IV secolo d.C. avrebbe (le certezze storiche in India non esistono) scritto Yogasutra, cioè la summa degli insegnamenti dal 3500 a.C. fino a lui.
E qui si apre un mondo. Innanzi tutto Patanjali non dice «distruggere», ma parla di «arresto». Quelli che pensano che si debba smettere di pensare per ottenere la felicità non saranno mai felici perché è impossibile. Sennò Yogasutra, trattato di psicologia ante litteram, lo avrebbe scritto. Invece parla di fermare questi pensieri che abitano non la mente, ma la coscienza. E anche qui la differenza è sottile, ma fondamentale. Patanjali ci dice che gli effetti di un pensiero non restano solo nella mente, ma si espandono in tutto il nostro essere.
Lo yoga è un metodo sottile e progressivo: innanzi tutto prendiamo consapevolezza del respiro e poi questo respiro, lungo e completo, che parte dalle viscere e arriva fino alle clavicole, disegna l’asana che viene interpretata secondo un disegno al contempo oggettivo e soggettivo; l’accento sulla respirazione fa sì che la posizione venga tenuta a lungo nel modo più comodo e consono possibile e che una condizione di immobilità produca una possibile espansione di coscienza. È lì che avviene un piccolo miracolo fisiologico e mentale: i pensieri non spariscono, ma sono come parcheggiati di lato, non interferiscono con quella parte fondante di noi, il “testimone” silente della nostra vita che vive oltre la vita e che con la pratica possiamo iniziare a percepire. Questo percorso porta la gioia, non la pratica ginnica di asana.
Quello che ho imparato da Antonio Nuzzo (e che lui ha imparato da Swami Satyananda, Vimala Thakar e altri Maestri del ’900), è che l’asana è lo strumento dell’indagine, non il fine. Questo è inaccettabile per molti insegnanti che fondano il percorso sugli asana (e anche sul respiro, certo), ma che vedono in un ampliamento della possibilità una diminutio del proprio ruolo o del proprio metodo.
E qui sta il bello, l’altra parte dell’effetto delle parole di Nuzzo: scoprire che siamo tutti ignoranti, inadeguati, che non sappiamo, che non siamo guru e maestri, ma eterni principianti, è il passo fondamentale per progredire nella ricerca interiore.
Avere qualcuno che mette in discussione e in dubbio quello che faccio, il modo in cui l’ho imparato, discutere su apparenti certezze, ampliare la visione, espandere la coscienza, appunto, anche da un punto di vista intellettuale, è la vera sfida che quelle parole indurrebbero a raccogliere.
A meno che le resistenze, le paure e la voglia di avere ragione prevalgano.
Non voglio dire che abbia ragione Nuzzo e altri no. Non è questo il ragionamento. Io so quello che insegna, ma comunque non ne farei una questione di tifo. Quello che dico è che sicuramente quando qualcuno infrange i nostri sancta sanctorum ci sta facendo un regalo.
