Quando si parla di vairagya, di questo che sembra un comandamento dello yoga, ci sono alcuni problemi da risolvere, il primo è di traduzione: distacco non è proprio il termine che gli rende giustizia. Piuttosto è una presa di distanza causata dall’assenza di desiderio. L’altro problema è che non si sa molto bene da che cosa dobbiamo distaccarci. Siamo tutti nati nella cultura cattolica e quindi la prima cosa che viene in mente è la sessualità, il sesso, oppure il vivere nell’agio. Abbiamo nella nostra mente l’esempio di San Francesco che si è rotolava nella neve per cercare di lottare contro la tentazione. E quindi questo termine diventa una sorta di comandamento, sì in questo senso ho detto che sembra un comandamento, perché nello yoga non ci sono comandamenti. Però sicuramente questo è uno snodo centrale, forse non tanto nella filosofia quanto nella pratica, quanto nella progressione verso una ricerca spirituale. Distaccarci da cosa?
Per capire da cosa dobbiamo distaccarsi, dobbiamo capire innanzitutto chi siamo. Qual è la nostra vera natura, per esempio. «Ah ho capito allora bisogna distaccarsi dall’ego», verrebbe da dire. Ma chi sono io? Questo è un problema enorme non solo nello Yoga dove asmita, il senso dell’io, è una delle cause della sofferenza. Ma che cosa significa dire «io». Ci lasciamo aiutare dalla scienza, in questo caso dalla psicanalisi dove scopriamo concetti come «la malattia è un effetto del rafforzamento dell’identità». Spiega Recalcati che in questo senso Freud è stato il Copernico della psiche perché a un certo punto ha tolto il primato all’ego con la “scoperta” dell’inconscio: l’inconscio cioè sfugge alla volontà e alla ragione e ne siamo tutti figli e vittime.
Lo Yoga lo ha scoperto 5.000 anni prima anche se usa altri termini. Usa i termini karma, samskara, ma il concetto è simile: per quanto proviamo a essere “tutto d’un pezzo”, non consideriamo che c’è un pezzo mancante, una forza a prescindere, che sfugge al nostro controllo e che spezza l’immagine che abbiamo di noi. Sta cominciando a emergere qualcosa da lasciare andare. L’immagine che abbiamo di noi, cioè quell’io che pensiamo di essere o di dover essere. Per convenzione sociale. Per inseguire il concetto di normalità, per uniformarsi, in una sorta di continuo atteggiamento adolescenziale alla ricerca dell’accettazione. Lacan diceva che credersi un «io» è la vera follia dell’uomo: «Se un uomo che si crede re è un pazzo, un re che si crede un re non lo è da meno». Metteteci il titolo dell’ambiente yoga che volete al posto di quello di «re» e vi sarà tutto più chiaro: guru, maestro, discepolo, santo, eccetera…
E anche nella ricerca spirituale siamo rimasti eterni adolescenti? Da quale idea è necessario distaccarci? Dall’idea che abbiamo della vita, per esempio. Una delle traduzioni del termine francese lâcher prise è accettare la vita per quella che è. Lasciare la presa, lasciare andare. E accettare.
• Accettare di non essere come gli altri.
• Che la vita abbia alti e bassi.
• Che la vita abbia una fine. Nostra e dei nostri cari.
• Che abbiamo momenti di rabbia che mal si abbinano all’immagine di esseri spirituali.
• Che soffriamo di mal di schiena, di raffreddore, nonostante facciamo yoga.
• Che abbiamo emozioni negative, momenti di nervosismo, di scoraggiamento, di rabbia. Esplosioni di rabbia!
• Che facciamo fatica a cambiare abitudini.
• Che ci capiti di tradire noi stessi o gli altri.
• Di essere incoerenti…
Potrei andare avanti a lungo. Lasciare andare l’idea immensa che abbiamo di noi significa lasciare andare il proprio ego? Tutti abbiamo un ego ed è quello che ci aiuta anche a vivere. Anche se siamo sulla via spirituale, ma viviamo in questo mondo non possiamo lasciarlo andare completamente, no? Quale «io» va a lavorare ogni mattina? Vedete come pramana, il ragionamento corretto, ci assiste in questo ragionamento? Ma è un ragionamento che si ferma a un certo punto…
Vairagya è un termine che deriva da «viraga» che significa «senza passione»: è essere liberi da coinvolgimenti emotivi e dalle emozioni che possono condizionare la mente, dicono i testi. Ma come? Yoga è tapas dice Yogasutra 2.1, passione, però è necessario distaccarci dalle passioni. Vedete che è necessario distaccarci dalla coerenza e cercare il senso dell’incoerenza. Ci sono passioni che aiutano a vivere e ci fanno vivere e altre che ci fanno male e ci causano la sofferenza. Per entrare in questo nonsense Zen è necessario espandere la coscienza. È necessario capire che bisogna lasciare andare anche la nostra idea di coerenza del ragionamento per ritrovare la coerenza di noi stessi. Ecco vairagya è quel dono che ci permette di ritrovare quello che non chiameremmo «io» ma che è il nostro vero sé. È obbedire a ciò che siamo. È distaccarci da quello che non ci appartiene e che tratteniamo per motivi che solo il karma o l’inconscio sanno, e in questo modo scoprire chi siamo davvero. Ma solo questo distacco ci porterà al discernimento e alla chiarezza mentale.

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Questo è un po’ il manifesto dello yoga che pratico e che insegno da quasi trent’anni. Lo yoga si occupa della domanda essenziale che abita ogni essere umano. Del mistero del vivere, del mistero dell’essere coscienti. Del “chi” siamo e “come” siamo. La parola “Yoga” indica uno stato, uno stato fondamentale della coscienza. Non è un percorso che conduce da un luogo a un altro, e neppure una ricerca di benessere. È la possibilità di essere consapevoli di essere vivi e di come lo siamo. La possibilità di sentirsi espressione di una realtà indivisa. La pratica di Yoga si fonda sull’Osservazione e sul Cambiamento.
Lavoro con la voce da cinquant’anni. È stata la mia compagna, la mia arma gentile, il mio specchio: la radio, la tv, il canto. Con la voce ho raccontato e ascoltato, ho cercato emozione, ritmo, verità. Ma più la uso, più capisco che la voce non è solo suono: è respiro che si manifesta, corpo che vibra, anima che prende coraggio e decide di farsi sentire. È la forma più diretta di presenza
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