«Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua», così cantava Celentano celebrando le tanto agognate ferie estive. Ma quando finalmente siamo in ferie riusciamo veramente a godercela o piuttosto siamo degli insopportabili rompiscatole, insoddisfatti di ogni cosa, sempre sull’orlo di una crisi di nervi?
Basta guardarsi attorno (e talvolta allo specchio), per capire che raramente la parola ferie coincide con la parola felicità.
In un recente articolo dell’Economist, uno psicanalista spiega al giornalista Josh Cohen perché, per alcune persone che soffrono di burnout, rilassarsi è assolutamente impossibile.
Il burnout è un insieme di sintomi che derivano da una condizione di stress cronico e persistente, per lo più associati al contesto lavorativo: insoddisfazione, irritabilità, esaurimento delle energie psicofisiche. Talvolta depressione e perfino crisi di panico.
Il medico racconta di un suo paziente che, sentendosi particolarmente schiacciato dal burnout, decide di prendere una settimana di ferie dal lavoro.
Nella sua mente il progetto era quello di dormire fino a tardi, leggere qualche romanzo, fare qualche passeggiata e magari guardare qualche puntata del Trono di Spade. Invece, non si sa come, si è ritrovato a riempire le sue giornate di musei, concerti, teatri, incontri con amici in bar e ristoranti, sessioni in palestra, lezioni di lingue straniere e montaggio di mobili dell’Ikea. Dopo i primi giorni si sentiva più stanco che mai, e gli amici lo prendevano in giro, su Facebook e Twitter, increduli che tutte queste attività fossero più pesanti rispetto a lavorare.
«Come sono riuscito a fare tutto questo quando in realtà non volevo fare niente?».
«Come si fa a non fare niente?».
Domande interessanti.
Lo psicanalista evidenzia come, in realtà, “non fare niente” oggi sembra essere un’“attività” impossibile per moltissime persone. “Non fare niente” visto dalla prospettiva di una cultura che guarda con disdegno tutto ciò che odora di inattività, corrisponde a un’infausta sentenza.
Ci giudichiamo a partire dalla produttività e di conseguenza ci sentiamo in colpa quando non raggiungiamo certi obiettivi.
Sentirsi un tutt’uno col lavoro ha creato in noi un condizionamento fortissimo che ci ha resi incapaci di riposarci per davvero.
Il primo sintomo della vittima del burnout è proprio questo sentimento di esaurimento delle forze interne, accompagnato da una compulsione nervosa a continuare a fare cose. Anche se esiste la consapevolezza di trovarsi in un vicolo cieco, non riusciamo comunque a capire come possiamo uscirne.
Il sintomo successivo è la perdita della capacità di rilassarsi o, semplicemente, di non fare niente. Non siamo più capaci di dormire, di fare un lungo bagno, un pasto lento, una conversazione, o qualsiasi cosa che induca calma e soddisfazione.
La conclusione dello psicanalista è impietosa: raccomandare attività rilassanti a qualcuno che riferisce che l’unica cosa che non riesce a fare è rilassarsi, può essere addirittura controproducente.
E allora come si fa a ritrovare la capacità di non fare niente o per lo meno fare di meno?
La psicanalisi potrebbe essere un rimedio, anche se consuma energie emotive, tempo e denaro. Inoltre non funziona per tutti, come del resto tutte le discipline fisiche e mentali.
Nei casi meno gravi di burnout spesso l’esaurimento dipende da cause più esterne che interne.
Sono gli eventi della vita (divorzi, problemi finanziari, eccesso di lavoro, relazioni tossiche…) a consumare la nostra energia. In questi casi bisogna trovare soluzioni esterne, come per esempio ridurre le ore di lavoro e trovare più tempo per attività rilassanti o contemplative, come lo yoga e la meditazione.
In questo caso è più importante cercare un rimedio rispetto al rimedio stesso. Spezzare la routine, ascoltarsi, prendersi cura dei bisogni del sé interiore in opposizione alle richieste del mondo esterno, può davvero fare la differenza.
Tuttavia questo tipo di soluzione è inadatta a tutti coloro che vivono un contesto lavorativo che impone orari e impegni gravosi e inderogabili. Per queste persone ridurre le ore di lavoro e portarsi fuori dai livelli più alti del gioco corrisponde a creare una maggiore ansietà, per via del mancato raggiungimento dei risultati.
Quindi, se da una parte sappiamo che esistono molti mezzi attraverso cui possiamo essere aiutati a rilassarci, il severo burnout ci dice che non possiamo usarli. Il che aggrava il burnout stesso.
Se invece il burnout ha radici psicologiche, cioè interne, la psicoterapia può essere d’aiuto.
In una seduta di psicoterapia ci si ferma e si comincia a parlare senza che ci sia una particolare tabella di marcia, ci si può permettere di andare dove la mente ci porta.
Non si è più schiavi delle liste di cose da fare.
Addirittura durante una seduta possiamo anche stare zitti, scoprendo il valore di stare semplicemente con qualcuno, senza sensi di colpa, iniziando ad apprezzare quello che lo psicanalista americano Jonathan Lear chiama «attività mentale senza uno scopo».
Durante l’analisi possiamo scoprire nella nostra storia elementi che ci rendono particolarmente vulnerabili al burnout, come per esempio pressioni attive fin dall’infanzia che richiedono di essere sempre al meglio, e che portano a sentirsi vuoti ed esausti quando inevitabilmente si presenta uno scollamento da questa idealizzata immagine di sé. È per questo meccanismo che il paziente dello psicanalista era incapace, e stupito, di non riuscire a non fare niente. Nei suoi ricordi sono emersi pasti familiari veloci, genitori che subito si mettono in movimento per varie attività e impegni, mai inattivi o in relax. Tutta la sua vita era stata pesantemente programmata e ricorda i rimproveri di entrambi i genitori quando era considerato “pigro”.
Le riflessioni di questo psicanalista riguardano un po’ tutti noi, dato che probabilmente un po’ tutti soffriamo di una qualche forma di burnout, sia interno che esterno.
In alcuni casi cerchiamo qualcosa da fare anche all’interno di un’altra attività, per esempio mentre guidiamo telefoniamo, o leggiamo e mandiamo messaggi. O durante i pasti rispondiamo alle mail o prendiamo appunti. O al cinema scrolliamo Instagram.
La nostra capacità di concentrazione è andata a farsi benedire, insieme alla capacità di comprendere la posizione che occupiamo nel tempo, nello spazio e nel contesto familiare e sociale che ci circonda. Viviamo un eterno presente, che non è quello idilliaco che predicano le filosofie orientali, ma un presente virtuale in cui non siamo al centro di niente, perché siamo troppo condizionati, manipolati e distanti da quel progetto divino che è la nostra vita.
Nei primi tre giorni di ferie siamo più iracondi delle Erinni, più agitati di un tonno intrappolato nella mattanza, perché non abbiamo la più pallida idea di come compensare la paura del vuoto.
Vogliamo le ferie ma non le sappiamo gestire.
Vogliamo fare yoga ma poi sul tappetino ci assalgono le angosce. La verità si affaccia, e invece di abbracciarla la respingiamo, recalcitranti preferiamo negare, abbandonare, scegliere attività che non scendano così in profondità.
Ma se proprio noi non vogliamo scendere nelle nostre profondità chi mai vorrà farlo?
Chi mai potrà amarci senza condizioni?
Non facciamo che evitare di porci certe domande, ci lasciamo fagocitare dal carpe diem senza la necessaria centratura, senza le essenziali, dolorose, premesse.
Se il primo giorno di ferie siamo arrabbiati e intrattabili non è per il wi-fi che non funziona, o per il cane del vicino che abbaia troppo, o per il tosaerba attivo nell’ora della pennichella.
La rabbia è sempre la manifestazione di qualcosa che cova sotto la cenere e che prima o poi ci toccherà elaborare: la distanza da chi siamo veramente.
Allora quest’estate non facciamo il solito errore: non portiamo in vacanza l’efficienza, l’ottimizzazione e la produttività, piuttosto facciamo spazio ad attività non programmate, al mistero, allo stupore, allo scorrere del tempo, all’ozio.
Lasciamo che le cose accadano.
Potremmo accorgerci che, in fondo, i nostri gusti sono cambiati (che noi siamo cambiati, e questo non è necessariamente un evento catastrofico da evitare), che cercare la ripetizione di quel piacere non ci soddisfa poi più di tanto, che se spezziamo certe abitudini non casca il mondo.
Anzi, il nostro mondo si ricrea, e noi insieme a lui.
Buone vacanze.

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