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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

Pronti per la stagione del cambiamento?

Aggiornamento: 29 ago 2022

La banalità è la cifra di questo tempo. Ci pensavo stamane: quand’ero ragazzo, sognavamo l’America, l’amore libero, le praterie, i grattacieli di New York, i concerti dei nostri miti e quando siamo cresciuti abbiamo scoperto che 25 anni dopo la caduta del nazismo, in America dovevano ancora risolvere il razzismo contro i neri, che laggiù eri felice sono se eri ricco, bianco e omologato, che il potere, il denaro e il conformismo era la trinità cui erano devoti. Il potere dell’illusione è potente ed è la madre di tutte le banalità.


Lo vediamo negli slogan di oggi, vuoti e senza attinenza con la realtà; ma la gente ci crede, «basta la parola», come per un famoso confetto lassativo. E lo si vede anche dalle guerre quotidiane ricche di insulti che argomentano qualsiasi post su Facebook, Twitter o altro. Lo spettacolo è deprimente.


Anche lo yoga, anche il mondo spirituale o religioso, sono prede e vittime di questa banalità. È più facile costruire un mondo su un’illusione che su una realtà. È più facile seguire un pensiero semplice che perdersi nella fatica della complessità della vita. Siamo abituati a vivere di rendita, pensiamo che basti iniziare un percorso per acquisirlo, e ci dimentichiamo che qualsiasi idea nel tempo si affievolisce, che se non viene nutrita con lo studio e la pratica, si dissolve come una statua di sabbia: non ci accorgiamo e dopo un po’ a quella pratica non crediamo più, la critichiamo, facciamo i nostri distinguo. Basta un attimo di distrazione e la banalità ripetitiva di frasi stantie si impadronisce di noi.


Per questo «Yogasutra» ha creato il concetto di abhyasa, la pratica costante. L’aggettivo «costante» ha in sé il significato della forza, della durevolezza, e ha la stessa radice del verbo latino «constare» che significa «fermarsi, star fermo». Abhyasa è una promessa di eternità di quella fiamma accesa con l’incontro di un sentiero. Senza di essa, il sentiero si dissolverebbe come nei miraggi. Restare ancorati a questa tensione ideale ci permette di non scadere nel banale, nell’ovvio, di non accontentarci, di non nutrire la pigrizia, ma di continuare ogni giorno la nostra ricerca. Solo se la si nutre ogni giorno, questa ricerca si sedimenta; altrimenti sbiadisce come gli scontrini del bancomat.


Pratica costante non significa fare asana tutti i giorni, ma tenere vive le tre fiaccole dello yoga, l’ardore della ricerca, la conoscenza di sé e dei sacri testi, e l’abbandono al divino/l’accettazione del nostro karma.

Ma se - per convenzione e non per banalità - l’estate fosse “in discesa” (anche per chi non è mai iniziata), questo significherebbe che presto saremmo pronti a fare nuovi propositi per l’inizio vero dell’anno (chissà perché non si festeggia capodanno il 1° settembre…), il momento in cui la speranza di un cambiamento è più viva. Quali corsi vorremo cominciare? A quali hobby dedicarci? E che ne facciamo del lavoro, si cambia o no? A settembre (lo dicono gli avvocati) è tempo di redde rationem anche per i rapporti in fase di risoluzione. A settembre tutto cambia e tutto si fa più vivo, illuminato da nuove intenzioni. Il vecchio che non si rinnova ristagnerà per tutto l’autunno. Qualsiasi estate abbiamo avuto, siamo alla vigilia di un momento di potenziale rinnovamento.


Il verbo «rinnovare» in India ha il volto e a forma di un dio, Shiva, l’incarnazione della trasformazione, il distruttore della banalità e dell’ovvio. Se Shiva ti ama, le difficoltà non saranno poche, ma la ricchezza che se ne ricava sarà inestimabile. Shiva che ci costringe a fermarci o a muoverci - l’esatto contrario di quanto vorremmo fare - è la scomodità che impedisce di perdersi nel pensiero semplice. Perché tutti abbiamo difficoltà, ma essere baciati da Shiva significa vedere in esse un dono, un dono che ci distoglie dal pensiero abitudinale, che ci costringe a spostare i termini dei ragionamenti.


Non so voi, ma all’inizio io mi ribello. Sempre. Comincio a guardare in cagnesco i libri di yoga o le immagini dei guru, come se fossero loro la causa. Ma mi conosco (e anche i libri e i guru mi conoscono) e nessuno si offende; mi lascio il tempo di protestare indignato prima di accettare quello che mi accade e di chiedermi cosa mi stia dicendo questa “divinità” dispettosa. Mi è accaduto anche questa estate e non è mai facile. E mentre mi chiedevo quale insegnamento mi fosse arrivato, ecco apparirmi il rischio della banalità. Anzi, il male della banalità.

Ecco, non mi è concesso di essere banale – mai - o di dare per scontato un ragionamento o un sentiero, tutto deve continuamente essere messo in discussione, messo alla prova dello studio, della passione e dell’abbandono al divino e al karma. Alla prova del fuoco.

Rifuggire la banalità non significa cercare l’originalità a tutti i costi, ma quel “nuovo” forgiato nel fuoco che potrebbe apparire all’orizzonte oggi per essere declinato come non è mai accaduto prima. Significa dare una nuova possibilità al pensiero e alla vita.

Siamo pronti per settembre e per migrare ancora.


La statua di Shiva del «Gitananda Ashram» di Altare (Sv).

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