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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

La maleducazione non è soltanto mancanza di bon ton

Vi siete mai chiesti perché molto spesso quando lasciate attraversare qualcuno sulle strisce pedonali in pochissimi vi ringraziano? Sento già la risposta: «Perché è pieno di maleducati». È la realtà. Ma che cosa significa? Me lo sono chiesto, me lo chiedo quasi tutti i giorni, perché tutti i giorni mi succede di incontrare la maleducazione.


Che cos’è la maleducazione? È soltanto una questione di buone maniere? Si può imparare con un manuale? Sì, certo, ci sono ottimi manuali e spiegano come comportarsi in ogni occasione. Li consiglio, sono tutti molto validi, ed è assolutamente necessario leggeri - oltre che utile - perché il comportamento è una sorta di codice che aiuta a relazionarsi, a comunicare, a far capire all’altra persona chi sei tu, chi è lei, dove vi trovate in questo momento e perché.


Ma non è solo questo.


Credo che la attuale mancanza di “educazione” sia il sintomo di qualcosa di più profondo, anche di più allarmante se volete. È il non accorgersi che c’è una persona davanti a te. È il non accorgersi chi sei tu e dove mi trovo io, come mi pongo in relazione con il resto del mondo. È il non accorgersi che una persona sta facendo qualcosa per me, che mi sta osservando, che sta interagendo con me anche senza parole, semplicemente con un gesto o con un non-gesto.


È il sintomo dei tempi che stiamo vivendo, in cui siamo tutti autocentrati, ai limiti del narcisismo, come se avessimo sugli occhi una patina che ci impedisce di vedere noi in relazione al mondo.


Se lo espandete ai massimi sistemi significa anche non prendersi cura del prossimo e non accorgersi che il mondo intorno a noi sta crollando, che la natura si sta ribellando, che l’aria sta peggiorando, che ci si ammala per le malattie causate dall’inquinamento, dal cibo che ingeriamo, dal mancato rispetto che diamo al nostro corpo, agli animali, alla natura, all'ambiente.


Ecco, il corpo: è così difficile prendersi cura del nostro corpo. Cerchiamo di farlo, magari andiamo alla Spa, ci mettiamo qualche crema, ci regaliamo un massaggio, ma è in noi - in primis - che si deve accendere la cura. Basterebbe, per esempio, alzarsi dal letto e allungare la colonna vertebrale, espandere il respiro fino ad aprire completamente il petto, sentire l’aria che entra e che esce dalle nostre narici, prendere contatto con la parte più grossolana di noi perché è da lì che parte tutto il resto. Perché se non c’è il contatto col grossolano non ci può essere il contatto nemmeno con sottile. Altrimenti il “sottile” diventa una pura illusione.


Qualche giorno fa riflettevo con un'allieva, nella sala di yoga in cui insegno, sui significati degli yama e dei niyama, i cosiddetti 10 comandamenti dello yoga. In sanscrito si chiamano «anga», cioè membra di uno stesso corpus che è lo yoga, appunto. Qualcuno li definisce “step", ma è fuorviante. Non dobbiamo imparare a non essere violenti e onesti prima di fare un asana, ma è nell'asana che impariamo cosa sia il rispetto per il corpo, la non violenza sul corpo e sulla mente che pretende un obiettivo dal corpo.


Gli yama sono anche dei principi universali del vivere civile: non-violenza, verità, non fregare il prossimo, mettersi in relazione con l'Universo, accontentarsi di ciò che si ha. Non vi sembri azzardato collegarli al discorso della maleducazione diffusa. Ma non nel senso di un nuovo - l'ennesimo - galateo da studiare.

Gli yama non sono un libretto di istruzioni, quanto piuttosto indicatori che ci svelano dove siamo noi hic et nunc. È nell'osservazione che impariamo a non essere violenti con noi stessi e, quindi, con gli altri. È nell'osservazione che ci scopriamo in relazione con il mondo, con chi ci attraversa la strada o con l'autista (e non l'auto) che ci fa passare sulle strisce.


Vedete, questa via spirituale non impone un galateo, ma trasforma il nostro modo di pensare. Siamo noi che nella “contemplazione” degli yama ci guardiamo allo specchio e possiamo capire se i principi del vivere civile ci appartengono o no. Ma non è giudizio. Lo yoga non è moralismo e non è fatto per moralisti. È fatto per donne e uomini che si assumono la responsabilità di sé stessi e degli altri. Chi pratica, chi medita, chi studia yoga, non è un essere superiore, ma l'ultimo perché ha l'aggravante di sapere e, nonostante ciò, di non riuscire a essere una persona migliore.


Questo cambia la prospettiva. Gli yama diventano i nostri specchi e noi degli eterni ricercatori. Non della perfezione, ma del profondo, di un sacro graal che è rappresentato dalla verità di ciò che siamo, dalla realtà della realtà.






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