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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

Il pensiero è un dono se non diventa un dio

Il pensiero è un affare complicato. Lo yoga ci dice che dobbiamo cauterizzarlo (nel peggiore dei casi) o annientarlo (nel migliore) e che solo così possiamo giungere al samadhi, l'enstasi, cioè l'estasi in se stesso e non per apparizione di una qualsivoglia espressione divina.

Però i grandi saggi (anche yogin) ricordano anche che il pensiero genera. Il pensiero di mamma e papà («Facciamo un figlio?») ci ha generati, il pensiero genera progetti («Ho un'idea»), il pensiero ci ricollega ai nostri cari che sono lontani da noi (qui o altrove), il pensiero è il generatore nucleare che dà concretezza alla realtà. Quindi - viene da chiedersi - 'sto pensiero ce lo teniamo o no? Riccardo Pazzaglia avrebbe commentato: «Ah, saperlo!».

Ci pensavo (ops...) oggi e mi chiedevo se le vritti (cioè i pensieri ossessivi del complesso mentale) e il pensiero cui accennavo prima, siano o meno la stessa cosa. Forse può sembrare uno pensiero (ancora!) di poco conto, ma non lo è per chi si trova sul sentiero dello Yoga e su quello orienta la sua vita. Dobbiamo smettere di pensare? Dobbiamo guardarci dal progettare, pianificare, occupare la mente?

Chi ha la riposta, può smettere di leggere. Agli altri che, come me, si dibattono in un territorio indefinito, non posso dare una risposta definitiva perché non sono un Maestro, ma posso condividere con voi le mie riflessioni.

Il «Cogito ergo sum» (penso dunque sono) di Cartesio per noi è superato. E non perché siamo superiori, ma perché abbiamo capito che noi non siamo i nostri pensieri, che i pensieri ci definiscono se e quando sono orientati dalla volontà, ma che non è il pensare tout-court a dirci che «siamo», bensì la consapevolezza di essere, il pensiero consapevole. Solo se «so di essere» sono, e so di essere solo se collego il mio pensiero alla mia coscienza: sapere di essere qui e ora collega i cinque sensi al resto del corpo, al respiro, al battito cardiaco, al tatto, a un «uno» e a un «tutto» che il solo pensiero non può contenere, ma che si possono intuire e cogliere diversamente.

D'altro canto, «pramana», il pensiero giusto, è l'ultima vritti da abbandonare prima di abbandonarsi all'eventuale enstasi: senza pramana non possiamo liberarci da illusioni, sogni, pensieri sbagliati e ricordi (le altre 4 vritti) che ci impediscono di essere felici e di esprimere il nostro potenziale. Se molliamo «pramana» prima delle altre, finiamo fuori strada e possiamo mandare in rovina la vita nostra e altrui perché finiremmo vittima di illusioni, pensieri sbagliati, eccetera...

Allora la via potrebbe essere quella di non demonizzare il pensiero, ma di relativizzarlo, di avere nei suoi confronti un atteggiamento morbido e di osservazione distaccata, di allontanarci da «raga» e «dvesa» (gli atteggiamenti del cercare il solo piacere e del fuggire da ciò che è necessario, ma scomodo). Non identificarci col pensiero o con i suoi frutti, ci permetterebbe di allenare il distacco che è una sorta di “salvezza” dal pensiero stesso.

Il pensiero - questo ho capito - è un dono nella misura in cui non vogliamo appropriarcene, in cui non ci identifichiamo con esso, ma lo consideriamo - appunto - il dono che è. Può sembrare una sottigliezza, ma è la linea che separa la felicità dalla sofferenza e che separa il bisogno di controllo dall'autoconsapevolezza, dall'abbandono a quel divino che abita dentro di noi e rappresenta la nostra stessa vera essenza. Il pensiero è un dono se non diventa esso stesso il nostro dio.








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