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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

C'è un rimedio alla paura del nuovo

Ieri riflettevo su un punto che riguarda me e te, tutti: la paura istintiva che proviamo nei confronti di ciò che non conosciamo. La sua declinazione si adatta a tutti gli ambiti in cui noi abbiamo una chiusura nei confronti dell'altro.

C'è in tutti questa paura, è atavica, ci fa ragionare (o sragionare) con il cervello più antico, quello rettiliano, quello della sopravvivenza. Il pensiero si ferma lì, la paura non permette al pensiero di elevarsi, di fare un ragionamento articolato, di mettere i distinguo, se e quando servono. È questa mancanza di passaggio dal cervello rettiliano a quella che nello yoga si chiama «buddhi», cioè la parte più evoluta del pensiero, che nasce la violenza nelle strade, sui social, nei rapporti.

Il senso dell'ego è minacciato e, pam, parte la risposta emotiva e istintiva. Senza rete, senza freni.


«Aihmsa» è invece la non-violenza dello yoga (avrò modo di parlarne a lungo prossimamente) la prima risposta possibile al pensiero dettato dalla paura. Perché questa paura danneggia in primis proprio noi, te e me. Togliere consapevolmente il pensiero violento dal proprio stomaco, dal proprio intestino, dalla propria testa, fa bene alla salute, è ecologia della mente e del corpo.


Penso alla chiusura mentale che ha spesso (ma non sempre) chi si vede invadere le strade dai turisti. Ricordo una volta in alta Val Camonica di avere trovato scritto sui vetri della macchina, «Milanese, torna a casa tua». Ero appena stato in un ristorante e avevo dato il mio piccolo contributo all'economia locale. Non importa, per quel valligiano ero un intruso. Penso al razzismo che invade le menti di tutto il mondo, mentre ora, senza immigrati, non abbiamo chi lava i piatti nei ristoranti. Potrei andare avanti a lungo. Potrei ricordare il razzismo francese di cui siamo stati vittima un po' tutti in famiglia, 100 anni fa come qualche decennio fa. Ma, proprio pensando a me, alla mia esperienza di vita in Francia, ricordo che dopo essere stato osteggiato o ignorato per un anno intero al mio arrivo, come per magia, improvvisamente, un anno dopo sono stato accolto come un caro amico da molti miei colleghi francesi. Non avevano più paura di me.


Chi è razzista, chi esclude, chi chiude la propria mente, non si concede un pensiero diverso perché non è abituato a farlo. È più facile dividere che unire i puntini di un ragionamento, è più facile ragionare in termini di tifo sportivo (un controsenso, il tifo è spesso l'anti-sport) che cercare di comprendere i meandri di una realtà che affrontiamo per la prima volta.


Pensavo a questo e alle similitudini con la pratica dello Yoga. Non lo yoga fisico e atletico moderno che somiglia al pilates, ma quello che si rifà ai testi della tradizione: in alcuni stili contemporanei si salta da un asana all'altro senza avere il tempo di gustarne alcuno e senza permettere al corpo di accomodarsi per bene in quel singolo asana. Quando pratico e insegno, invece, nell'asana faccio stare e sto come se si fosse nella posizione seduta della meditazione.


È un principio che ho imparato nella mia formazione (con Antonio Nuzzo e gli insegnanti della Federazione Mediterranea, Willy Van Lysebeth e Wanda Vanni), ma che ho ritrovato nella tradizione e nelle parole di Swami Gitananda Giri che sto studiando ora. Yoga è quando in un asana si lascia il tempo al corpo di entrare nella posizione, quando, respiro dopo respiro, ci si installa sempre più, si entra in relazione intima con tutti i muscoli interessati e anche con quelli non interessati. Si unisce il tutto in uno. Solo così, in questa sorta di fine ragionamento del corpo, l'asana non fa più “paura”, perché si lascia il tempo a muscoli e legamenti di entrare in una sorta di scambio vicendevole con le sensazioni primordiali della mente, del cervello rettiliano che, di fronte a una posizione nuova, normalmente si irrigidisce. Proprio come accade nella vita reale di fronte al nuovo, al diverso, a ciò che consideriamo “anormale” o addirittura “deviato”.


Ho capito che è per questo motivo che i maestri ci consigliano di non giudicare, perché il giudizio è sempre affrettato e non ci permette di entrare in contatto con una realtà che - vista da vicino e nel tempo - potrebbe non risultare così “anormale”. In fondo, lo sappiamo, cosa si può dire “normale”? Nulla, è solo una questione di mode, usi, costumi, che cambiano più veloci di un battito d'ali. La moda ci illude di renderci liberi, e invece ci imbriglia ai suoi voleri. Per non parlare del pensiero mainstream (di solito i pensieri mainstrean sono due e sempre contrapposti tra loro, lo abbiamo imparato fin troppo bene) che impedisce ogni ragionamento più profondo e articolato. Aut mecum aut contra me, o con me o contro di me, sembra non esistere alternativa. E invece l'alternativa c'è.


L'esistenza stesso di questo sito che ho fortemente voluto, vuole essere un piccolo tassello per iniziare a creare un'alternativa di pensiero. Per farlo non occorre affrontare di petto un singolo tema, ma basta - secondo me - iniziare a pensare in modo trasversale, partendo dalla conoscenza di diverse realtà. Questo consente di accogliere i punti di vista che non conoscevamo con la sorpresa dei bambini: si osservano, si entra in empatia con essi e poi - con l'aiuto dell'intuizione selettiva, ma senza più paura - si decide cosa fa per noi e cosa no.


Sì, «empatia» è la parola chiave in questo universo di autocentrati cronici che siamo noi (chi più chi meno). Empatia che consente di accogliere ciò che è diverso da noi, mettendo - pian piano - a riposo le nostre paure e la violenza che ne è figlia.







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