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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

Autoanalisi, la via verso la liberazione

Aggiornamento: 1 mar 2023

Non fatevi condizionare dall’inizio di questo articolo in cui si parla di yoga. Faccio una breve premessa, ma poi è della vita di tutti i giorni che parlerò.


Quando dico yoga – sempre – penso alle relazioni, al lavoro, alle difficoltà comuni e straordinarie, ai dolori e alle gioie. Per me questo è. La premessa è dovuta però: il percorso yogico di Patanjali, il suo iter, è costituito al suo interno da tre qualità necessarie. Che - se avrete la pazienza di leggere - vedrete che hanno a che fare, invece, con ciascuno di noi, qui e oggi.


La prima si chiama Tapas e significa «austerità», «ascesi», ma anche «ardore». È l'entusiasmo nel vivere una vita piena, fatta di ricerca interiore non per assumere poteri psichici, ma per servire gli altri, per diventare persone dall'alto grado civile e sociale, è la strada per l'empatia e la solidarietà. È una sorta di autopurificazione per proseguire nella nostra trasformazione. E qual è l'autopurificazione? È il non cercare conferme, ma accettare le sfide, il buttarsi laddove è necessario farlo. Tapas è non vivere col freno a mano tirato, è essere disposti ad affrontare e sopportare le prove quando arrivano e senza cercarsele. Tapas è la qualità per realizzare la terza, Isvarapranidhana, il gettarsi tra le braccia del divino che è in noi, affidarsi, lasciarsi andare, uscire dal controllo perché tanto non possiamo controllare tutto e a volerlo fare ci si ammala e si finisce sulla via degli psicofarmaci. Ma è della seconda qualità di cui voglio parlare: Svadyaya.


L'autoanalisi

È la conoscenza, lo studio di sé. Etimologicamente significa «analisi o studio di sé», ma in realtà la traduzione esatta è «studio in proprio/studio per sé» (Federico Squarcini). Interessante: c’è una sorta di responsabilità personale che entra in gioco nella «strategia dinamica» di Yogasutra. È lo studio personale nella pratica quotidiana ed è anche ciò che segue la pratica quotidiana, la vita di tutti i giorni, declinata nell’osservazione di sé. Swami Satyananda la traduce come «autoanalisi». In ultima analisi è il «conosci te stesso» (γνῶϑι σεαυτόν, in latino nosce te ipsum) iscritto nel tempio di Apollo di Delfi. Ha scritto qualche giorno fa Massimo Recalcati su Repubblica: «Conoscere se stessi significa disfare la credenza paranoica di essere quello che pensiamo di essere». Ma vediamo di capire cosa è l'autoanalisi. E lo facciamo cercando di capire cosa non è.


Cosa non è l’autoanalisi?

Non è «l’esame di coscienza», nello yoga non ci sono esami e la coscienza casomai la si espande. Non è uno studio che comporta un giudizio. Quindi se da un’analisi nasce un senso di colpa, possiamo lasciarlo andare perché non è quello l’obiettivo. I sensi di colpa non servono a crescere. Ma se arrivano non facciamocene… una colpa. Non serve neppure questo. Così come non serve immaginarsi di potere un giorno diventare impermeabili ai giudizi altrui. L’impermeabilità è un superpotere spirituale avulso dalla realtà e dall’uomo. È totalmente immaginario. Nessuno lo è. Oppure lo sei quando tutto va bene, ma quando entra in gioco una crisi, nessuno è impermeabile a nulla. Neppure i santi o gli avatar. Se qualcuno ve ne fa una colpa, ricordatelo. Specialmente quando s'incontrano i narcisisti, quelli che con un sottile veleno ci portano indietro e ci costringono a un continuo mettere in discussione noi stessi. Ma anche questa non è autoanalisi, questa è la via dell’autodistruzione. Che – anche se a fatica – possiamo permetterci di lasciare andare. Chi scrive sa bene cosa accade dentro quando si incontra un narcisista. Ma sa anche che - lungi da cercare il falso mito dell’impermeabilità – è proprio l’autoanalisi yogica che permette di fare uscire il suo veleno dalla mente. Un po’ per volta, con gentilezza, senza chiedere troppo alla nostra fragile mente.


Allora, cos'è l'autoanalisi?

È quel momento intimo e prezioso in cui ti vedi per quello che sei. È scoprire dove nascono i miei comportamenti, proprio il momento preciso in cui scatta una reazione, un'azione, un'inclinazione. Osservarlo e cercare di capire perché e come posso fare per liberarmi da un’inclinazione che mi porta a certi comportamenti, a certe reazioni. Per questo quando dico «yoga» dico «relazione: gli altri ci fanno da specchio per insegnarci a studiare gli aspetti della nostra personalità, dice Swami Satyananda. È una via di liberazione.


Fare, compiere, creare, agire, eseguire, portare a termine, questo è il lavoro da fare dentro di noi e intorno a noi. Non viene neppure richiesto (in senso stretto) di perdonare, il perdono è una diminutio, lo yoga parla di liberazione, che è oltre il perdono di sé e degli altri. È molto di più! È andare oltre l’offesa, l’errore, il rimpianto, il ricordo… È lasciare andare, lasciare che il fiume della vita porti via tutto. Così l’autoanalisi serve per andare avanti senza rimanere nel passato anche quando qualcuno vuole riportarti indietro. E questa è la cosa più difficile.


E poi c'è la conoscenza, lo studio

Infine c'è un altro aspetto di svadhyaya, un altro significato, quello dello «studio delle scritture». E anche qui provo a farne un concetto laico perché questo significato si sposa con l'altro: come possiamo pensare di conoscere qualcosa di noi senza leggere, studiare, esplorare? Diceva Paramhansa Yogananda: «Possedere una conoscenza limitata è pericoloso poiché il devoto corre il rischio di diventare vanitoso e pieno di sé, presumendo erroneamente di essere ciò che sa».

Ma certo! Oggi più che mai soffriamo della mancanza di questo. Crediamo di poterci informare leggendo i primi risultati dei motori di ricerca su Internet e allora andiamo dai medici e spieghiamo loro qual è la terapia di cui abbiamo bisogno; andiamo a lezione (di qualsiasi disciplina) e spieghiamo all'insegnante qual è la pratica che è necessario fare perché qualcuno ce l'ha spiegata così; sappiamo tutto, abbiamo una risposta (superficiale) a tutto, cerchiamo solo chi confermi le nostre teorie.

È ovvio che questa non si può chiamare «ricerca». Dalla lettura di un giornale o di un libro non dobbiamo aspettarci la verità, ma una visione. E l'insieme di tante visioni (quindi di tante letture e punti di vista) ci aiuterà ad avere un'opinione. Che sarà un altro punto di vista.

È uno snodo centrale oggi, perché la via contraria porta a essere disinteressati e disillusi su tutto, a fare scelte emotive o irrazionali, a non fare mai fact-checking, a credere a tutto ciò che ci piace credere.


La sfasatura e la soluzione

Scrive ancora Recalcati: «Freud mostra che non è affatto detto che siamo davvero quello che pensiamo di essere. Egli apre uno squarcio tra l'essere e il pensiero rompendo la loro coincidenza. La nostra esperienza, non solo clinica ma anche quotidiana, conferma ampiamente l'esistenza di questa sfasatura».

Svadhyaya ci preserva da questo, ci consiglia di leggere, studiare, leggere e studiare ancora. Di confrontarci con il mondo e con gli altri, di metterci alla prova dei fatti e delle relazioni, e di non arrivare a un giudizio su di noi, ma a un analisi dei nostri comportamenti. Senza la quale analisi, siamo preda dell'illusione, portatrice della sofferenza più intima. Sì, ho parlato di yoga, ma non ho descritto quello che ci accade ogni giorno?


Lo sguardo dolce e forte di un murales del sottopasso Garibaldi a Milano.

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